Scorretto, odiatore, ma efficace: perché Trump può vincere le elezioni
Verso le elezioni del 5 novembre negli Usa: il tycoon fa leva sugli insuccessi della gestione Biden, parla all’America scontenta degli ultimi 4 anni e si conferma performer convincente

Nel corso dell’ultimo triennio il prezzo di un litro di latte e di un chilo di uova è praticamente triplicato. E non c’è successo della Bidenomics – nonostante siano tanti, come dice la neutra obiettività dei dati – che tenga... Al punto che l’inflazione galoppata e mai domata, ovvero l’economia domestica, rappresenta la principale freccia a disposizione di Donald Trump contro la rivale.
Si può partire di qui per cercare di capire perché l’ex presidente sia saldamente in gara, e nelle ultime rilevazioni, ancorché vorticosamente oscillanti (come in alcuni Stati decisivi), appaia pure in testa.
Non vi è dubbio che, dopo alcune settimane di media «tutti pazzi per Kamala», il tycoon abbia ripreso a dominare la scena, valorizzando il suo talento da “Grande (sebbene molto discutibile) comunicatore”. Cosa che gli è riuscita sfruttando anche le gaffe degli avversari (pur essendo lui stesso un gaffeur): da ultimo la sconsiderata affermazione di Joe Biden secondo cui gli elettori trumpisti sarebbero «spazzatura». Parole dal sen fuggite, arrivate peraltro dopo le “battute” su Porto Rico «isola di spazzatura» pronunciate, invece, da un comico durante un comizio trumpista al Madison Square Garden. Ed ecco, allora, che Trump ha indossato una divisa da netturbino, ed è salito su un camion della nettezza urbana che lo attendeva in un aeroporto del Wisconsin per fare una clamorosa conferenza stampa.
Il tycoon, va detto senza infingimenti, è un giocatore scorretto; e, dopo avere incitato alla sommossa e vezzeggiato come “patrioti” i facinorosi violenti che diedero l’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021, presenta pure dei profili eversivi, che si innestano su un cinismo molto marcato. Tutti dati di fatto, e non opinioni di psicologia politica. Nondimeno, e questo è un punto essenziale, la sua narrativa aggressiva e apocalittica, intrisa di hate speech, piace a un pezzo estremamente ampio di quella mela sostanzialmente spaccata a metà che è diventata l’America. Convinta proprio dalla sua retorica sulla “vittoria rubata” che l’elezione presidenziale del 2020 sia stata contraddistinta da brogli a favore dei democratici. Beninteso, la politica a stelle e strisce non è mai stata un campo da mammolette, e la durezza dello scontro fra le parti e i candidati in lizza al pari del linguaggio molto muscolare e della violenza verbale (come tipicamente accade negli “spot negativi” girati per demolire il competitor) non costituiscono una novità. E, tuttavia, da quando Trump è in politica il tasso di inciviltà nel discorso pubblico si rivela cresciuto così esponenzialmente da avere dato vita a tutti gli effetti al filone della incivility politics. La radicalizzazione ideologica, già presente a destra, ha preso il sopravvento, e il neopopulismo reazionario e, al tempo stesso, internettiano della cosiddetta alt-right è divenuto di fatto la piattaforma ufficiale del trumpismo e di quello che era stato il Partito repubblicano di Lincoln, Eisenhower e Reagan. E si è saldato con il fondamentalismo religioso di matrice pentecostale e protestante che aveva già impresso il suo segno ideologico sulla stagione di Bush jr.
La fenomenologia politica di Trump è legata a doppio filo al paradigma dell’imprenditore che «scende in politica», trasferendo la velocità, il decisionismo, il «dire pane al pane e vino al vino» a un’attività malauguratamente considerata da tanti – e sempre maggiormente – come una sorta di inutile perdita di tempo.
In buona sostanza, una versione postmoderna dell’antiparlamentarismo, fino alle sue estreme (ed eversive) conseguenze come, appunto, nello scellerato attacco al Campidoglio. Oltre che businessman – alquanto controverso, come raccontato in queste settimane da The Apprentice, il film del regista Ali Abbasi sulle origini delle sue fortune –, Trump è un notevole performer e un protagonista centrale, e molto mondano, di una vita pubblica dominata dalla società dello spettacolo. Un miliardario che, come da format populista, riesce a farsi supportare fortemente (anzi, adorare, in senso letterale) dall’«uomo della strada», proponendo lo schema della lotta fra gli establishment “cattivi” e il popolo “buono”. Il campione del forgotten man delle aree rurali, degli Stati del Midwest e della working class (o ex tale) che si sente giustappunto dimenticato dalla classe dirigente di Washington e disprezzato dai media liberal e dai ceti intellettuali metropolitani.
Il maschio bianco adulto (spesso a bassa istruzione e, non di rado, privo di lavoro) che si ritiene vittima delle politiche del Partito democratico e delle (ormai ex) minoranze etniche che, nel rilevante cambiamento demografico in corso, stanno rovesciando i rapporti di forza rispetto ai wasp sinora prevalenti.
Di cui il trumpismo solletica la voglia di rivincita nei confronti dei “nemici” e delle élites a suon di slogan impregnati di white suprematism (quando non direttamente di razzismo) e della rivendicazione di parole come “integrità” (del processo elettorale, sulla base della mitologia pericolosissima di avere subito una frode), “buon senso” e “diritto di parola” contro la “censura” (che sarebbe corretto definire, invece, esaltazione del politicamente scorretto). E, ancora, mediante l’invocazione del ritorno a una «grande America» (come da acronimo «Maga»).
Promesse che si tradurranno in concreto, verosimilmente, in una politica economica protezionistica e in una estera improntata a maggiore isolazionismo e plausibile riduzione dell’impegno nella Nato, con la pressante ingiunzione – già più volte esplicitata – ai partner, in primo luogo europei, di “pagare” per la loro difesa.
Dunque, a dispetto di chi scambia questa ritirata strumentale per una spinta verso la pace, la vittoria di Trump – di cui è nota pubblicamente la “simpatia umana” nei riguardi dei dittatori – si tradurrà nel lasciare ulteriore spazio alle autocrazie, che non chiedono appunto di meglio che mostrare i muscoli e invadere i vicini (altro che multipolarismo...).
L’approccio del tycoon alla politica è ispirato al pragmatismo e alla flessibilità (ovvero, al cinismo) e, pertanto, se ritornerà alla Casa Bianca tutto risulta possibile, comprese eventuali inversioni di marcia. Ma il pregresso e i suoi toni odierni, ricolmi di anatemi, stizza e cospirazionismo non fanno presagire un futuro sereno per una nazione tremendamente lacerata che avrebbe bisogno, al contrario, di un presidente non divisivo e impegnato “a tempo pieno” in uno sforzo di riconciliazione.
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