Fuori dal ring va in scena una squallida boxe parallela

La quota di chi si approfitta del caso Carini-Khelif domina il dibattito. Sono i professionisti della dialettica strumentale, sport odioso. Prima di parlare bisogna conoscere. E avere empatia. Per entrambe le parti

Fabrizio Brancoli
Un corpo a corpo tra l’azzurra Angela Carini e l’algerina Imane Khelif
Un corpo a corpo tra l’azzurra Angela Carini e l’algerina Imane Khelif

Tra tutte queste persone che disquisiscono sulla presunta ingiustizia subita da una boxeur azzurra, c’è un’importante quota alla quale la vicenda umana di Angela Carini e Imane Khelif, in realtà, non interessa minimamente. Chi se ne frega delle due atlete, conta solo l’acqua da portare al mulino. Questa quota di persone si è mobilitata solo per puntellare una posizione politica, che è il vero ring dove darsele. I giudici di questo pugilato parallelo dovremmo essere noi; solo che siamo molto incompetenti, quindi falliamo.

Quanti sanno definire quale sia la condizione di Khelif? Non è un uomo, non si sente tale, non è un alieno; e, no, non è una transgender. È una intersessuale. Vale a dire una persona “che presenta variazioni delle caratteristiche del sesso (cromosomiche, gonadiche, anatomiche)”. Lo spiega l’Istituto Superiore della Sanità.

E quante persone intersessuali esistono al mondo? L’1,7% secondo l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani. Ci sono più intersessuali che epilettici più dei balbuzienti, più o meno quanto chi ha i capelli rossi, più degli schizofrenici e di chi soffre di artrite reumatoide. Ma i diritti di queste persone, che vivono un disagio sociale, sono solo eventuali. Esposti a ogni maledetta raffica di vento.

La quota di chi si approfitta dell’ennesimo caso olimpico domina il dibattito. Sono i professionisti della dialettica strumentale, sport odioso. Ogni cosa si spacca in due con un colpo da chef di sushi, senza approfondire, fino al prossimo sondaggio. In quei 46 secondi a Parigi scorrevano anni di battaglie, sacrifici, drammi e purtroppo anche tragedie personali, per entrambe; ma vuoi mettere fare le arringhe sui social?

La quota degli strumentali imperversa. E mica è una nicchia; è azionariato di maggioranza. Descrivono la Carini come eroica, e perché mai? Dopo il ritiro, ha pure dato le spalle all’avversaria rifiutandosi di salutarla, come se l’altra fosse un’intrusa.

Ma non era un’intrusa: era stata ammessa a competere, dopo valutazioni accurate. È avvantaggiata? È probabile, come una persona molto più forte di un’altra. O molto più alta. Victor Wembanyama in Francia-Giappone di basket ha duellato con Yuki Togashi; il primo è alto 224 cm, il secondo 167. Non c’è differenza competitiva? E diritti delle persone basse, chi li difenderà contro quel mostro che gioca da guardia-ala con 57 centimetri in più? Non è giusto, si presenti un’interrogazione parlamentare! Khelif era stata esaminata e l’avevano fatta gareggiare. Dov’è era, in quel momento, l’Italia? Non s’era desta, evidentemente. La federboxe aveva presentato reclamo? No.

Serve empatia anche prima di giudicare Angela Carini. Il padre, poliziotto, era stato vittima di un infortunio finendo sulla sedia a rotelle; è morto 3 anni fa e lei ai Giochi ci è andata nel suo ricordo. Alla fine ha detto: io non sono nessuno per giudicare e non ho nulla contro la mia avversaria. Nei toni dei politici scandalizzati, questa frase si è dissolta. Non è funzionale.

Ai mondiali di Istanbul, nel 2022, Imane Khelif era andata in finale. Ma lì aveva trovato una rocciosa irlandese di Dundalk, Amy Broadhurst, che l’aveva presa a sberle. Il tema del gap competitivo, guarda caso, non era emerso. Si inalberano solo se Imane vince. Se invece perde, non disturba.

Le sfumature, trascinate come polvere sotto il tappeto della coscienza comune. I dettagli da non sviluppare, le ombre ignorate, le complicazioni. Le microfratture delle nostre emozioni. Che ti possono fare male, se non te ne prendi cura. —

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