Poeta dell’incisione, antropologo e sciamano: dieci anni senza Tonino Cragnolini
Il 17 gennaio 2014 moriva il pittore friulano cantore della Terra e della Radice

UDINE. Difficile, anzi impossibile tracciare un “ritratto d’artista” usando solo le parole. Si rischia infatti di fare sterile accademia o, peggio ancora, di scadere nella compilazione di un santino canonicale.
Niente di più lontano, quindi, dallo spirito sanguigno e radicale di Tonino Cragnolini, cantore della Terra e della Radice, della memoria che esplode nel segno anarchico della ribellione, come sempre accade quando attinge al magma infuocato e incontenibile dell’immaginario collettivo, di robusta vena popolare e quindi inevitabilmente antagonista.
Quello friulano, nella fattispecie, impastato di generazioni contadine, illividite dalla fame, scolpite nella miseria. Costrette a quel “sottanesimo” che spesso le ha imprigionate in una macchietta da stereotipo e che invece il “Maestro” ha saputo liberare, tavola dopo tavola, indagandone l’anima più vera. Quella della “Crudel Zoiba Grassa” del 1511, probabilmente.
Quando il sangue dei privilegiati venne immolato per la prima volta in Europa in un rito orgiastico e dionisiaco che bene Cragnolini seppe trasformare in epopea.
Fu sciamano, antropologo, rivoluzionario, poeta dell’incisione che graffia senza sconti, scarnificando il Potere e regalando voce a chi, nella Storia, quella firmata dai grandi e dai potenti, non l’ha mai avuta.
Pochi sono stati gli artisti che come lui hanno saputo fare politica – quella nobile, quella che si può tradurre con il termine di “consapevolezza” ideologica e morale! - con gli strumenti sciamanici del loro talento, con la sempre più rara vocazione alla “partecipazione”. Come dimostra la sua adesione alle “Brigate del Fieno”, un’esperienza davvero rivoluzionaria in tutti i sensi che un giorno dovrà pure essere raccontata, da qualcuno.
Quando alla fine degli anni ’70 studenti, operai, poeti e musicisti della statura di Giorgio Ferigo, per citarne uno solamente, si ritrovarono in Carnia per falciare i campi incolti aiutando concretamente le comunità di una montagna dimenticata da tutti, perfino da Dio.
Quanti ne restano, oggi, di quei pochi, ci chiediamo con rinnovato sgomento? Tarcentino, proprio come Luciano Ceschia, friulano di quella Coja “slava” e “ruspiosa”, secondo il meraviglioso profilo che ne tracciò Tito Maniacco nella sua indimenticabile “Veglia”, e come loro terrigno, ancestrale, fu uomo di vigna e di solco, di rabbia da osteria e di invettiva feconda.
Quella che non risparmia mai l’ottusità dei “sorestans” e fa la differenza fra l’intellettuale di vaglia e di razza, dunque scomodo e di inciampo, e il cortigiano servile e compiacente, addomesticato al benvolere del Padrone. Che oggi, purtroppo, si manifesta con il discrimine del “contributo” erogato dall’ufficio competente, al quale pare sempre di più piegarsi una predisposizione alla marchetta piuttosto che alla progettualità.
Dieci anni senza Tonino Cragnolini, morto nella sua città natale il 17 gennaio del 2014, sono anche per questo un urlo nero che non si può sentire. Non solo per il mondo dell’Arte, ma più estesamente per quello della Cultura, che ora più che mai sembra priva di voce, incapace di esprimersi come invece dovrebbe denunciando la triste e squallida inciviltà in cui siamo costretti a vivere, noi impotenti spettatori, sempre più testimoni dell’inverosimile: il dilagare della guerra, il trionfo della ragion di stato, l’ottusa ignoranza dei governanti, la volgarità del capitale.
Antifascista dichiarato, esordì giovanissimo con una serie di tavole che denunciavano l’orrore del lager, come assieme a lui seppe fare solamente Zoran Mušič, sloveno di Gorizia.
E fu da subito quasi un manifesto di impegno civile, che Cragnolini mantenne nel corso di tutta la sua vita, raffigurando spesso la distruzione ingenerata dall’odio come un’ombra oscura, vagamente antropomorfa e mostruosa, che va calpestando e distruggendo torri e mura, ponti e scale. Profetica urgenza civile! Indagatore di emozioni, ipnagogico viandante dei sogni, seppe reinterpretare i grandi della letteratura universale (tra cui Beckett e Swift), per approdare a Ippolito Nievo, scoprendo assieme alle sue pagine “pecoraie” quella friulanità ruvida e antica che presto sarebbe esplosa fra le sue mani nel ben noto intreccio di linee, a volte violento, altre sognante, che fa la cifra della sua rappresentazione grafica della “psiche profonda furlana”. Ne ha cantato i sogni e gli incubi, i riti e i miti.
Grilli gotici, funamboliche passeggiate sull’abisso dei secoli, dei millenni forse, anime crudelmente infilzate da stecchi ricurvi, come dai coltelli dei suoi feroci e celebri “purcitârs”, suggestioni che paiono avere scaturigine dalle pieghe palpitanti della carne e delle viscere più che dalle estetizzanti.
Le foto straordinarie con cui Danilo De Marco lo ha ritratto, altra anima libera dei nostri giorni, colgono il lampo folle del genio che gioca. Capace di sognare senza dormire. Quasi un consiglio, di questi tempi. In cui gli addormentati, gli “indurmidîts”, sono molti. Troppi. E non danno cenno alcuno di risveglio.
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