Luc Merenda rievoca gli “spaghetti western”: «Quanti calci e pugni»

Originariamente sottovalutati, snobbati e sbrigativamente trattati come cinema di serie B, i “western all’italiana” hanno finito col rappresentare con i loro autori, registi e attori che li hanno realizzati una delle pagine più importanti della nostra cinematografia. In principio, 1964, fu un film come “Per un pugno di dollari” del grande Sergio Leone che con la sua ambientazione in aridi deserti, i duelli all’ultimo sangue affidati alla bravura e al carisma di due grandissimi come Clint Eastwood e Gian Maria Volontè, sostenuti anche dalla magica colonna sonora di Ennio Morricone, a fare da apripista a un genere che conquistò le platee di tutto il mondo e registi come Sergio Corbucci, Franco Giraldi, Duccio Tessari e tanti altri, fino a farne una sorta di mito. E di “western all’italiana” o “spaghetti western” come con una certa sufficienza molta critica straniera e prevenuta definì il genere, si parlerà oggi, 8 giugno, alle spilimberghesi Giornate della luce, alle 20.30 al Cinema Miotto nella tavola rotonda condotta dai critici cinematografici Steve Della Casa e Oreste DeFornari, “I magnifici 7. C’era una volta il western all’italiana”, dove i sette, oltre ai due conduttori appassionati cultori del genere, sono il regista Paolo Bianchini, gli interpreti Fabio Testi, Liana Orfei e Luc Merenda e il direttore della fotografia Blasco Giurato.
Abbiamo sentito Luc Merenda, passato dietro alla macchina da presa, dedito al documentario.
«In realtà, di western ne ho interpretati solo due, “Così sia”, nel 1972 il mio primo film in Italia e l’anno dopo il sequel “Oremus,alleluia e così sia. ” Il primo diretto da Alfio Catalbiano, un omone di quasi due metri ma molto bravo, anche come attore. La particolarità di questo film era che per la prima volta tutte le lotte e gli scontri tipici del genere erano quasi veri, e io, come tutti gli altri, tiravo calci manate e pugni e ne tiravo così tanti che la sera ero paralizzato dalla stanchezza, e avevo bisogno di una massaggiatore che mi rimettesse a posto per poter affrontare il set il giorno dopo. Le giornate di lavorazione erano molto lunghe e impegnative»
Ma come era girare questi film che prima di diventare di culto erano considerati con la puzza sotto il naso, specie dalla critica?
«Era molto bello girare e anche l’ambiente era molto professionale ed ebbero un grande successo, erano apprezzati anche all’estero, tanto che quando andavo anche in altri paesi mi fermavano per strada, mi riconoscevano. E poi perché sinceramente erano girati interpretati e montati molto bene, fatti da grandi professionisti insomma, e con il tempo questo è stato riconosciuto».
Lei ha interpretato anche molti film polizieschi.
«Questi pure all’epoca guardati con molta sufficienza e poi, come per i western diventati stracult. Avevano però una forza espressiva diversa dovuta al fatto, anche senza essere apertamente di critica, guardavano alla realtà, raccontavano fatti che potevano essere accaduti davvero».
Che cosa ricorda di quegli anni, del cinema italiano che era comunque in grande fermento?
«Che c’era grande vitalità, non dimentichiamo che in quegli anni il cinema italiano rappresentava il 12% di tutto il cinema prodotto nel mondo, mentre il cinema francese, per dire, dove erano rimasti un po’ alla nouvelle vague, era solo al 2%».
A proposito lei è francese, come è diventato poi italiano e non solo di adozione?
«Quando per la prima volta sono venuto a Roma, proprio in occasione di “Così sia”, ho capito di essere arrivato a casa». —
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