“In punta di piedi”: Patrizia Querini narra il dolore di un padre lontano dalla figlia
La terza opera della psicologa friulana è ambientata a Venezia. Un dramma borghese che mette in luce false convenzioni

Di Patrizia Querini, psicologa sandanielese ma veneziana d’adozione, già avevamo conosciuto due precedenti romanzi, Il pianoforte laccato bianco (2017) e La vie en rose (2021), che ci avevano colpito per la raffinata analisi psicologica dei personaggi che alimentavano le rispettive storie. Storie in cui giovani donne e uomini attratti dal loro fascino (ma anche viceversa...), componevano o disfacevano coppie e relazioni, storie in cui i sentimenti dei protagonisti giocavano un ruolo portante nella trama narrativa che si sviluppava con ben articolati colpi di scena in una sempre avvincente e incalzante lettura.
Al suo terzo romanzo, In punta di piedi (Mazzanti Libri editore), Patrizia Querini affina ulteriormente i risultati letterari fin qui raggiunti, nel senso che continua a presentarci – con accresciuta leggibilità – storie intessute di avventure amorose e appassionate, ma introduce in questo caso un tema particolarmente sentito e mai così approfondito nelle sue pagine, quello della paternità, o meglio, della sua insistente assenza. Il romanzo infatti si snoda, per gran parte, attorno alla dolorosa lontananza di un uomo, Heinz, dalle braccia di Irene, la sua giovane figlia, causa prevedibili legami coniugali e familiari preesistenti che il padre non vuole, almeno inizialmente, infrangere, e rendono difficoltosa ogni diversa relazione affettiva, e perché le rispettive città in cui si trovano a vivere padre e figlia sono oltretutto oggettivamente lontane: Vienna e Venezia.
Spiega opportunamente l’autrice che, almeno in via teorica, «il padre si inserisce gradatamente nella diade madre-figlio, creando distanza nella loro relazione fusionale. In tal modo impedisce alla madre di saturare inconsciamente il suo desiderio unicamente attraverso il suo bambino» (p. 50). Ma nella finzione letteraria consegnataci dalla Querini, l’abbandono del padre nei confronti di sua figlia, durato in tutto diciott’anni, non può che provocare sofferenze, inquietudini, vuoti affettivi da un lato, e dall’altro – quasi a compensare quell’assenza – un anomalo attaccamento con l’unico genitore rimasto ad accudirla, la madre. «Sua madre la teneva ostinatamente distante dalle insidie dell’esistenza», coccolandola in una turris eburnea in cui non poteva esserci spazio per il padre, che aveva concepito Irene fuori dal rassicurante tetto coniugale, anzi, in aperto contrasto con le sue regole di convivenza.
“Dramma borghese”, si sarebbe detto un tempo. E infatti le false convenzioni hanno ancora, a distanza di più di un secolo, qualcosa del loro incomprimibile peso. E quando finalmente i due protagonisti scioglieranno i nodi che li avvolgevano così tenacemente, ritroveranno un’armonia a lungo ricercata, che contribuirà a superare senza più indugi l’immagine negativa del padre coltivata per quasi vent’anni.
A dare maggiore sostanza a questo saliscendi di emozioni, troviamo un’ambientazione molto più accurata e ricca dei precedenti romanzi, che fa emergere Venezia in tutto il suo cristallino ed evanescente splendore. Un atto d’amore per una città che qui rivela i suoi angoli più sconosciuti e lontani dall’invadente turismo di massa, e sembra accompagnare le volubili emozioni dei suoi tanti personaggi sulla scena, mai gridate, ma sottilmente argomentate o delicatamente vissute, appunto, “in punta di piedi”.
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