Il primo romanzo di Matteo Cerami nel solco culturale di Chiarcossi e Pasolini

Dopo “Tutti al mare”, un film di qualche anno fa scritto con il padre Vincenzo, un intelligente e ironico remake di quel “Casotto” con cui nei lontani anni ’70 Sergio Citti celebrava a modo suo la commedia all’italiana, Matteo Cerami approda alla letteratura con un romanzo spietato e sincero, “Le cause innocenti”, edito da Garzanti.
Un destino segnato, quello di Matteo Cerami, che mette subito le mani avanti confessando che «nel calderone della letteratura ci sono caduto come Obelix», con il padre, il romanziere, drammaturgo poeta e sceneggiatore Vincenzo (autore, tra i molti, di quel capolavoro “Un borghese piccolo piccolo” che ha fissato senza sconti la condizione della piccola borghesia italiana sul finire del secolo) e una madre, Graziella Chiarcossi, filologa, cugina di Pasolini e fedele quanto inesausta curatrice della sua eredità.
Un destino segnato, dunque, quello di Matteo, visto l’ambiente da cui proviene, un’ambiente che trasudava libri e cultura, sullo sfondo del quale campeggia la figura del Cugino. Ovvero Pasolini cui la famiglia deve la «profonda disperata vocazione drammaturgica – quell’impulso travolgente a leggere la realtà come un racconto».
Eh si perché sin da subito anche Matteo subisce quella vocazione alla scrittura, come strumento per esorcizzare le angosce, accudire il mal di vivere. Convinto che la vita cambia a seconda di come la si descrive e solo scrivendo si può costruire un personaggio, anche il proprio. Ma sotto sotto, fonte di un disagio interiore che l’accompagna sempre, la consapevolezza dell’inanità dello scrivere, perché «chi scrive non sa vivere». Di qui il romanzo: il racconto di una vita sin lì falsamente velleitariamente inverata nella scrittura, epperciò fonte di solitudine e vuoto.
Di qui il bisogno di tirare una riga, di porre fine a questo gioco solitario di ambiguità e ipocrisie. Come? Ancora una volta con la scrittura, ma questa volta non un racconto inventato, ma una lunga lettera, sotto lo pseudonimo di Antonio Capace, al proprio commercialista Vivaldi, affinché metta in ordine i conti e liquidi tutto. E sotto questo senso forte, liquidatorio si svolge quello che potrebbe essere un doloroso bilancio, alla fine del quale il lettore è portato a vedere qualcosa di definitivo, tragico.
Un suicidio? Una fuga? Ma, come in un travolgente flusso di coscienza – ché la scrittura di Matteo Cerami privilegia l’analisi psicologica, lo scavo interiore, la riflessione sul senso delle cose, la profondità degli accadimenti più che gli accadimenti stessi – il lettore viene invece investito, in una continua dilazione della soluzione, dal racconto della vita del protagonista.
La famiglia, l’infanzia dorata, l’adolescenza al Liceo internazionale francese, l’università a Parigi, dove invece che la Sorbonne preferisce frequentare i caffè, osservare e osservarsi; e poi gli amici perduti, gli amori traditi… Un’esistenza, quella sin lì descritta, senza soverchie preoccupazioni, tanto ci hanno pensato i genitori a pianificarla con i loro soldi. Un’esistenza che viene fatta deflagrare in tutta la sua vacuità, dagli attentati di Parigi. È così che allora si scopre che Antonio Capace non esiste, Vivaldi non esiste. E la realtà, questa volta vera concreta, è più forte della scrittura stessa.
E lo svelamento di una verità: scrivere per demolire tutto quello che gli è capitato. «Ho sbagliato tutto, ho gettato la mia felicità nel secchio, solo per avere qualcosa da dire e ho cominciato, infine, a scrivere, a descrivere il nulla che mi porto dentro, qui in questa lettera».
Nessuna fuga dunque, nessun suicidio, ma la consapevolezza che forse una luce in fondo a tutto, forse una luce c’è: quel «po’ di orizzonte che me ne vado a cercare, al mare dopo aver imbucato questa lettera». “Le cause innocenti” non è solo la radiografia quasi chirurgica di una singola esistenza, ma lo specchio spietato di una generazione, della sua - e della nostra - inadeguatezza in un mondo e in un’epoca senza via di scampo.
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