Yehoshua: pace vicinama l’America è debole

di
Michele Meloni Tessitori

PORDENONE.
«La soluzione dei due Stati per Israele e Palestina è piú vicina, ormai anche le destre l’hanno accettata e i popoli la condividono. Ma nessuno riesce ad adottarla perché bisognerebbe fermare gli insediamenti nei territori occupati. Vorrei che Obama avesse piú coraggio, fosse piú duro e facesse finalmente pressione sugli israeliani». Lo ha detto ieri a
Pordenonelegge
lo scrittore Abraham Yehoshua, che ha ricevuto il premio
La storia in un romanzo
, promosso da FriulAdria Crédit-Agricole.


«Gli israeliani temono che i palestinesi possano non volere uno stato piccolo e frammentato» ha spiegato ai molti giornalisti che l’hanno attorniato fino dal momento del suo arrivo all’hotel Moderno, purtroppo senza bagaglio rimasto in aeroporto a Roma («Ma - ha scherzato - lo ritroverò prima che Israele e Palestina abbiano firmato la pace»). «I palestinesi in effetti si fanno piú attendisti - ha precisato ancora -, nella convinzione che, comportandosi in modo pacifico, otterranno dalla comunità internazionale l’uscita dal loro apartheid. Ecco perché dico che il presidente Obama dovrebbe avere il coraggio di obbligare le parti al negoziato».


Ora i tempi sono maturi: «Il radicalismo anche da noi ormai è simile a quello delle destre europee: non è tanto ideologico, quanto un atteggiamento, un linguaggio, basandosi al fondo su una certa indifferenza. Dietro ci si prepara a un compromesso». Ci vorrebbe però piú pressione, «e invece il presidente Usa sembra veramente che voglia sempre cercare di evitare i drammi (Yehoshua ha citato il motto: “Obama no drama”, ndr) ed è stato clamorosamente messo sotto pressione dal governo israeliano».


Al teatro Verdi, dove è stato accolto dal direttore del festival Gian Mario Villalta, lo scrittore si è poi addentrato nelle tematiche piú prettamente letterarie, ma senza mai perdere di vista le questioni politiche. E ricevendo il premio
La storia in un romanzo
consegnatogli da Giovanni Lessio per FriulAdria e da Adriano Ossola di
èStoria
, ha subito ricordato che «il popolo ebraico ha fondato la sua origine su una conoscenza mitologica - il mito dell’esodo, la distruzione del tempio, il ritorno a Sion - e non su una conoscenza storica». È stata la diaspora a segnare «il momento del ritorno alla storia, al territorio. Allora si è smesso di giudicare se stessi in termini assoluti e ci si è raffrontati con le vicende degli altri popoli».


Ma ciò che è piú premuto all’autore di libri come
L’amante
,
Il signor Mani
e il recente
Fuoco amico
, è stata l’urgenza di ricondurre la letteratura a una dimensione etica per contribuire allo sviluppo di una dimensione morale «altrimenti consegnata ai media o ai tribunali». «Nella letteratura - ha detto - c’è troppa psicologia che ha scalzato le riflessioni morali. Solo tornando alle questioni etiche si potrà assumere un ruolo di indirizzo e di orientamento per i grandi temi del nostro tempo».


Dal podio del Verdi, intervistato da Emanuela Trevisan Semi, con accanto l’interprete Paolo Scopacasa, il romanziere ha poi chiarito il suo rapporto con la storia: «Per me non è mai un rifugio, ma la necessità di tornare indietro nel tempo per capire meglio, per esempio, le ragioni della follia di una guerra del presente, com’era quella in Libano. Ho scritto un romanzo sui bivi importanti della storia ebraica quando c’erano piú opzioni, per interrogarmi se potevano essere prese strade migliori». Per esempio per chiarire «il meccanismo che ha fatto sí che gli ebrei sparsi nel mondo mantenessero un’identità comune grazie a codici religiosi e sociali condivisi».


Yehoshua ha ancora osservato «che in un romanzo storico lo scrittore non può essere strumento dei fatti, ma deve avere ben chiara un’idea e deve pensare a creare i personaggi e a dare loro la stessa dignità di un uomo di questo secolo perché le sensibilità del passato, fin dai tempi delle tragedie greche, non sono distanti da noi».


Infine il richiamo del Mediterraneo: «Siamo tutti legati a questo mare - ha affermato -: ebrei, arabi, fino al Nord Africa e alla Sicilia. Qui è la culla della civiltà e penso che sia fondamentale ritrovare quest’identità comune. Gli arabi ci accusano di avere il cuore a New York, ma non è vero, noi siamo costretti a intrattenere stretti legami che a me non piacciono nonostante l’aiuto che l’America ci dà perché essa ha fatto anche male al mondo. Invece dico che noi popoli dello stesso mare abbiamo tantissimo in comune e un’identità mediterranea sarebbe senz’altro migliore».

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