Vergarolla, strage ancora senza colpevoli

1946: l’esplosione che causò 66 vittime. Il testimone Livio Dorigo: «Pola era di ddun’enclave alleata al centro di troppe tensioni»

Il 18 agosto 1946 Pola è un’enclave angloamericana dal destino incerto, anche se appare probabile la sua assegnazione alla Jugoslavia. A Vergarolla, dove è in corso una gara natatoria, una catasta di bombe lasciate incustodite sulla spiaggia esplode, causando 66 vittime e una cinquantina di feriti. Le inchieste che seguono stabiliscono che si è trattato di atto doloso, senza indicarne responsabili o finalità. E Vergarolla viene dimenticata. L’oblio dura sino al 1996, quando il Circolo Istria erige una stele sul sagrato del duomo di Pola. E in seguito affida allo storico Gaetano Dato una ricerca, oggi pubblicata da Libreria Editrice Goriziana con il titolo Vergarolla. 18 agosto 1946. Di qui nascono l’interrogazione parlamentare Garavini (Pd) per una commissione d’inchiesta, e la commemorazione tenuta venerdì scorso a Montecitorio, cui ha presenziato Livio Dorigo, testimone della strage e presidente del Circolo Istria.

Dorigo, dunque si trattò di un gesto voluto?

«Le inchieste esclusero la deflagrazione spontanea, anche se ce n’erano già state due, al Molo Carboni e a Vallelunga. Per citare L’Arena di Pola, la città era “assediata dagli esplosivi”, con depositi non sorvegliati, spesso saccheggiati dai pescatori. Gli Alleati, che non volevano accuse di responsabilità, dissero che, senza innesco, le bombe non potevano scoppiare, ma L’Arena espresse dei dubbi».

La vulgata degli esuli dice che l’attentato voleva indurre gli italiani ad andarsene. Gli studi di Dato portano certezze?

«No. La scelta, del resto, era già stata fatta. All’opzione per l’esodo avevano aderito 28 mila capifamiglia su 70 mila abitanti. Il Messaggero Veneto – all’epoca giornale della destra – scrisse anzi che i polesani erano stati colpiti “per privarli di quella forza d’animo dimostrata nella decisione di abbandonare tutto, di distruggere tutto se lo straniero dovesse un giorno calpestare le pietre poste sulla strada della città dai legionari romani”. Ma alla vigilia delle decisioni internazionali un attentato del genere poteva ritorcersi contro Tito».

Scenari contrapposti?

«Con mille variabili. Il lavoro di Dato ha appunto il merito di restituire l’incredibile complessità della situazione. Tra Vergarolla e il 10 febbraio 47 – il giorno in cui viene firmato il trattato di pace e Maria Pasquinelli assassina il generale De Winton – su Pola si scaricano tensioni di ogni sorta».

Per esempio?

«Cozzano zolle statuali e ideologiche, etniche ed economiche. C’è un forte traffico clandestino di armi, che si intreccia addirittura con quello dei rifornimenti all’Haganah. Nei servizi italiani, alleati, jugoslavi, russi, reciprocamente infiltrati, abbondano i doppiogiochisti. Cala qui la “cortina di ferro”, gli Usa vogliono subentrare alla Gran Bretagna nella supremazia sull’Europa, mentre la Russia preme per l’affaccio al Mediterraneo».

E l’Italia?

«Come scrive Dato, ci sono più Italie, in quel momento: spezzoni monarchici, democratici, comunisti, fascisti. Il Paese ha enormi problemi: il rischio di una guerra civile, il separatismo siciliano e valdostano, la smobilitazione delle colonie. Sull’Istria il governo si muove tra legalità e illegalità. Come attesta lo studio, risultano attivi Raffaele Cadorna, l’organizzazione Stay Behind, casa Savoia, la massoneria, persino il Vaticano. E da ambienti monarchici e neofascisti si guarda all’Istria come a una possibile “nuova Fiume”, detonatore per opporsi al comunismo e anche alla democrazia in Italia. Lo scrive, a Roma, William Cole, consigliere politico americano presso il Governo Militare Allato. Nelle carte si trovano nomi di personaggi che riemergeranno nelle indagini sul “piano Solo”».

Si potrà mai trovare una spiegazione?

«Ci sono delle piste, per le quali ulteriori elementi potrebbero venire dagli archivi italiani non ancora accessibili, e da quelli russi, francesi e serbi. L’unica conclusione possibile, al momento, rimane quanto scritto, nel’46, da Guido Miglia, direttore de L’Arena: che per i polesani la guerra non era finita, e che gli istriani erano carne da macello sotto tutti i governi».

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