Vendeva bici con marchi contraffatti, condannato
Lui dice di averlo fatto in buona fede, spinto dalla passione per il ciclismo e dal desiderio di sfrecciare su biciclette sempre nuove e prestanti. Con il vantaggio di pagarle di meno e, poi, di...
Lui dice di averlo fatto in buona fede, spinto dalla passione per il ciclismo e dal desiderio di sfrecciare su biciclette sempre nuove e prestanti. Con il vantaggio di pagarle di meno e, poi, di rivenderle. Ma assemblare ruote e telai con marchi contraffatti, tanto più se acquistati on line dalla Cina, e spacciarli per originali, per il codice penale italiano rappresenta un doppio illecito: introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi e ricettazione.
Ieri, ritenendo fondata l’accusa formulata dalla Procura, il giudice monocratico del tribunale di Udine, Roberto Pecile, ha condannato a due anni e due mesi di reclusione e a 900 euro di multa Maurizio Rizzi, 53 anni, di Udine. Altrettanto aveva chiesto il vpo, Luca Spinazzè, mentre il difensore, avvocato Piergiorgio Bertoli, aveva concluso per una sentenza assolutoria con la formula “perchè il fatto non costituisce reato”.
Era stato lo stesso Rizzi, suo malgrado, a fare sorgere i primi sospetti ai carabinieri sull’attività di vendita delle proprie biciclette (attività completamente slegata, peraltro, dalla sua professione). Uno degli acquirenti, un napoletano, non gli aveva versato la somma concordata e lui lo aveva denunciato. Ma così facendo, aveva finito per esporsi a una serie di accertamenti che, in breve, avevano svelato la provenienza della merce, acquistata in internet come non originale e adoperata poi per costruirsi in casa le biciclette. Una decina i pezzi trovati nella sua disponibilità, nell’ottobre 2015, con marchi nazionali ed esteri contraffatti: Mavic, Specialized e Pinarello, tutte aziende note del settore e identificate a quel punto come parti offese nel procedimento avviato a suo carico dal pm Giorgio Milillo.
«Sapeva che quelli acquistati non erano pezzi originali – ha detto l’avvocato Bertoli –, ma pensava di poterlo fare lo stesso. Del resto, avveniva tutto alla luce del sole: per importarli, pagava regolarmente il dazio alla dogana. Inoltre, non aveva alcuna finalità di commercio: acquistava i pezzi per sè, per assemblare bici di cui poi lui stesso si serviva e che soltanto in un secondo momento vendeva, come usato, ad amici e conoscenti. Era un modo per ammortizzare le spese e non certo per arricchirsi: in circa tre anni, si conta una dozzina di casi appena». Scontato l’appello.
(l.d.f.)
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