Un sabato al bar tra droga, sogni e il concerto di Vasco

“Figli d’asfalto”: storia di periferia, cruda e ironica, sullo sfondo delle Case Rosse Scritto nel ’98 e appena uscito nelle librerie, anticipa tutti i romanzi di Santarossa 
di MASSIMILIANO SANTAROSSA


“Figli d’asfalto”.


(Scritto nel 1998, anticipa tutti i romanzi di Santarossa. È tratto dall’antologia “Gli Stonati”, Neo Edizioni, uscita da poco nelle Librerie. Ecco il racconto in anteprima per i lettori del Messaggero Veneto, per gentile concessione dell’autore e dell’editore)
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Pedalo, pedalo, pedalo sempre più forte. Sterzo dentro via Pirandello. Il sole alto batte sulle spalle, sulla testa. Una Fiat Panda 30, marrone, esce di colpo dall’incrocio, mi viene addosso, il pedale sinistro della mia Bmx argentata tocca la gomma destra posteriore di quel cassone.


«Bastardo di Budu!» urlo al tossico alla guida. Prendo il bivio a destra e imbocco la discesa verso il bar Silvia. Mi alzo in piedi sui pedali. Sono velocissimo. Le Case Rosse, alte trenta metri, lunghe centinaia, larghe tanto basta da tenerci dentro fiumi di famiglie, nemmeno oggi mi mangeranno. Io lì dentro mica ci finirò mai.


Tiro un’inchiodata di dieci metri davanti al bar Silvia e lancio la Bmx sopra le bici degli altri. Sono già tutti qui.


«Frenata da record!» urlo spalancando la porta.


«Cosa sbatti la porta, cosa hai da urlare bocia?» ribatte Luca alzando un vassoio stracarico di Moretti chiare da mezzo.


Oggi è sabato e come ogni sabato i tavolini esplodono. Ci sono facce su facce. Ovunque c’è gente con jeans sbregati, magliette con scritte e teschi: Metallica, Iron Maiden, Il Blasco, pantaloni tagliati. Sono gli stessi di ieri sera alla Perseo, che li guardavo da dietro il Pacman. Sono qui per il concerto di Vasco al Parco Galvani, stasera, e io neanche c’ho i soldi per andarci.


Oggi è sabato e tutti cantano, alzano bicchieri al soffitto, si abbracciano, brindano, qualche bicchiere si spacca e ridono. Invece per tutta la settimana nemmeno li vedi: sono a lavorare in fabbrica, in catena, dicono proprio così: in catena alla Zanussi, alla Savio, alla Sèleco.


Il barista corre. Porta Moretti, bottiglie di Merlot, mezzi litri di Tocai, e ride, prepara panini, pizzette, pezzi di salame e di pane vecchio, e ride. Ride sempre, Luca, di sabato.


Vicino al biliardo, seduti al solito tavolo verde acqua ci sono Caio, Kiki e Ringhy.


Mi faccio largo in mezzo a schiene, tette, fumo, puzza di sudore, sbatto sull’ennesima faccia di Vasco che mi fissa da una maglia nera, sgomito per farmi spazio e finalmente arrivo.


«Ciao raga», dico.


«Ho il fumo» avverte Caio, a bassa voce.


Si alzano di scatto e siamo già in marcia.


Sul retro del bar Silvia ci sono tre ragazze. Se ne stanno lì a parlare di chissà cosa, appoggiate al muro rosso scrostato, tra le siepi e il giardino della scuola media dove la notte i tipi in auto vanno a imboscarsi.


Caio tira fuori dalla tasca il pezzo di fumo oleoso, marrone. Lo sgrana sulle dita. Kiki fa cenno di passarglielo e lo mischia al tabacco di una Camel recuperata di scrocco dal Baffo. A sua volta passa tutto a Ringhy, il migliore a tirare su un cannone preciso. Mica facile.


Ringhy accende. Tira. Poi passa a Caio. Tira. Poi arriva a me. Tiro. Poi lo giro a Kiki. Tira. Ringhy attacca a dire che è roba buona, resinosa, buona e resinosa, resinosa, e buona. Tanto buona. Tanto resinosa. Quando si fissa con le para diventa peggio di Umberto Smaila con i culi delle Ragazze CinCin. Ringhy ha quindici anni e da tre fuma botti. Caio dice ovvio, ovvio, ovvio, e ride, me l’ha passato mio fratello, ché gli ho lavato cinque volte la Fiat Ritmo Abarth 130. Kiki tace. Io penso solo alle tette delle ragazze laggiù.


Rientriamo al bar Silvia come un plotone di stonati. Se ci mandano in guerra duriamo cinque minuti. Ci spariamo sui piedi, penso, e scoppio a ridere da solo. Comunque qui si dice che Villanova è già in guerra e io sono durato quattordici anni, dico gonfiando i bicipiti come Rocky 4.


Recuperiamo il nostro tavolo e subito Ringhy si volta, mi fissa.


«Stai muto, non ridere, stai muto» ripete stringendo i denti.


Caio mi prende la faccia e me la gira verso il fondo del salone.


A soli due tavoli c’è il Bubu, uno dei vecchi del bar Silvia. Ha trentacinque anni, e qui comanda lui. Questione di esperienze, di pessime storie, cioè di Pere. È seduto con il suo amico Faccia Tagliata.


Oggi ci sarà spettacolo, col Bubu nei paraggi accade qualcosa. Così si dice. E si dice anche che grazie al Bubu, Villanova di Pordenone, cioè le Case Rosse, è secondo in Friuli per casini, appena dietro la zona del porto di Trieste. Siamo famosi, andiamo sui giornali, noi!


Nell’ultimo mese Piscina, che si piscia ogni giorno nei pantaloni, ha accoltellato Lo Zingaro; Pasin ha rubato l’auto della polizia, ma è stato beccato dopo due curve stampato sul platano, con le luci blu accese; Manera ha steso tre dell’est a cazzotti in faccia; Bisturi invece è stato arrestato mentre inseguiva una pensionata a pochi metri dalla Friuladria di Madonna delle Grazie, giù per la discesa del Tuttosconto che porta ai garage delle case popolari, la vecchia gli dava giù in testa con l’ombrello e lui tirava la borsetta finché ha mollato la presa e lo hanno beccato come un idiota due vigili usciti dalle siepi del campo di tennis. Ogni volta la prima pagina del Messaggero Veneto.


Il Bubu usa il bar Silvia come ufficio. Ora è impegnato a discutere con Faccia Tagliata. Si fissano, parlano stretto. Sopra le loro teste, attaccati al muro rosso scuro, ci sono i poster di Carmen Russo e Pamela Prati. Quattro tette enormi che sembrano cadergli addosso da un momento all’altro.


Sul tavolo hanno dodici bicchieri, vuoti. Tutti con un alone arancione. Segno che dentro c’era il Ciuccio, roba di aperol, vino bianco e qualche avanzo di superalcolico aggiunto a caso. Ogni tanto lo mandiamo giù anche noi, ce lo passa Luca guardandosi attorno. Mi son sempre chiesto cosa gli frega, che paranoie si fa, abbiamo ormai quattordici anni.


«È ora di far basta con questa vita di merda» attacca il Bubu. «Vita inutile. Da domani si cambia registro, capisci?! Qui bisogna prendere in mano il progetto. Quella storia del negozio che mi gira in testa da anni. Roba grossa, capisci?! Che io ci ho le idee! Qui dobbiamo muovere il culo. Diventare imprenditori anche noi, che son tutti imprenditori a Pordenone! Capisci?!».


Io, Caio, Kiki e Ringhy ci mettiamo subito le mani alla bocca, per non scoppiare a ridere. Il Bubu vuole aprire un’attività, mettersi in affari con Faccia Tagliata.


«È semplice, amico, basta aver fiuto per i soldi e io, modestamente, di fiuto ne ho. Soldi no. Ma sono un imprenditore nato. Io mica vengo da una famiglia di merda. Io ci sono abituato a queste robe qua del far girare soldoni. Se mi dai soldoni, io ti moltiplico soldoni. In famiglia siamo geni dell’economia. Gran testoni».


Al bar Silvia tutti sanno che i parenti del Bubu sono come lui. Il fratello maggiore ha aperto un bar nel quartiere qui vicino, poi un’officina meccanica in centro, poi un negozio di frutta e verdura nella zona nord, poi un’impresa di pulizie. Il padre aveva un negozio di ferramenta, poi ha messo su un’azienda di costruzioni, poi ha fatto l’idraulico. Infine è scappato assieme all’altro figlio, nessuno sa dove. È rimasta solo la madre a fare il lavoro più antico del mondo, anche oggi che è vecchia.


«Cazzo, amico» riattacca a sbraitare il Bubu, «apriamo il negozio di vestiti per giovani più giusto in circolazione, mettiamo dentro roba alternativa, inglese, costosa, roba buona. Capisci? Ci vuole solo il locale in centro, la licenza, chi ci porta la roba, il nome giusto, i manifesti, i cataloghi, dopo prendiamo quello che ci tiene i conti, la cassa per i soldi che butta fuori lo scontrino, e poi vai liscio che ci arrivano un mare di clienti con la pubblicità nel giornale».


Il Bubu si ferma, butta giù un altro giro di Ciuccio per scrollarsi di dosso i brividi e riprende: «le grandi idee hanno bisogno di lunghi pensieri e di gente con i coglioni, di gente come me e te, capisci?!»


Faccia Tagliata risponde eccitato, elettrico: «È una figata, è una figa figata, è una gran figata. Ci sto dentro alla grande, amico! Alla grandissima. Posso fare il commesso, amico. Io, commesso per mezza giornata. Ogni giorno. Tutte le mattine. Così il pomeriggio tiro avanti anche in fabbrica. Doppio lavoro, fratello. Che noi a Pordenone ne facciamo anche due o tre di lavori. Noi di Pordenone!».


Il Bubu spalanca la bocca. In un istante diventa pallido come un cadavere. Prende a tremare. Gli parte uno scossone lungo la schiena. Si contorce e torna dritto. Ha la fronte lucida. Gli occhi bianchi, spariscono le pupille. Poi tornano.


Piegati, lenti come due zombie, si alzano dal tavolo, percorrono lo stanzone del bar Silvia barcollando ed escono nel piazzale.


Io, Caio, Kiki e Ringhy ci guardiamo. Non serve dire nulla. Gli siamo dietro.


Il Bubu e Faccia Tagliata salgono a fatica sul Ciao giallo, il primo alla guida e l’altro buttato sul portapacchi dietro. Partono zigzagando a destra e sinistra. Sfilano accanto alla Uno turbo del Vez, che se gliela toccano gli sfonda a pugni il cranio e gli mangia le ossa. Si sbilanciano. Appoggiano i piedi a terra e riprendono la corsa. Girano verso la strada di sassi che costeggia la ferrovia e passa dietro la scuola media.


Li seguiamo a distanza.


«Cosa stracazzo andranno a fare laggiù?» chiede Ringhy.


«Secondo me a impiccarsi» risponde Caio ridendo.


«Sicuro che vanno a beccare qualche scemo per rifilargli roba rubata» dice Kiki sfregandosi le mani.


«Dai raga, andiamo, veloci che li perdiamo!» insisto, mentre faccio strada.


Il Bubu e Faccia Tagliata percorrono altri cento metri e si imbucano sotto le scalinate della scuola, nella zona in ombra. Come le pantegane dei fossi.


Noi giriamo attorno all’edificio e gli arriviamo alle spalle. Senza farci sentire ci nascondiamo dietro i piloni. A cinque metri.


Visti da qui sono peggio delle pantegane, più sporchi, più puzzolenti, e più morti che vivi. Girano in tondo, inciampano ogni due passi, si inginocchiano vicino al Ciao per cercare qualcosa che devono aver perso dalle tasche, si rialzano barcollando, si abbracciano per non cadere. Poi di colpo il Bubu si irrigidisce, dritto come un bastone, spalanca la bocca senza denti, gli viene su un conato e butta fuori un getto di vomito marrone, tipo sangue marcio. Si sbilancia ancora di più e la brodaglia gli impregna la canotta bianca dal collo allo stomaco.


«To mare troia», attacca a urlare alzando la testa verso il cemento nero, crepato, pieno di muffa della scuola, «To mare troia», ripete.


Faccia Tagliata lo afferra e lo raddrizza come fosse un manichino. Il Bubu si ripulisce la canotta dai resti di vino e sangue e riprende a trafficare con le mani nella tasca del marsupio. Tira fuori un pacchettino di carta stagnola, un cucchiaio annerito, una siringa sporca e un pezzetto di limone flaccido. Faccia Tagliata gli passa l’accendino giallo con le stelle rosse. Si siedono a terra, uno accanto all’altro, e iniziano…


Guardo finché l’ago di acciaio si appoggia alla pelle del braccio.


Guardo finché la punta entra nella pelle.


Guardo finché la siringa si riempie di sangue e poi si svuota dentro. Nelle vene.


Poi chiudo gli occhi.


E nessuno apre più bocca.


Un istante dopo sentiamo la voce del Bubu, persa nella penombra: «Il negozio ci aspetta, amico, dobbiamo fare basta con questa merda, amico, dobbiamo attaccare il progetto, amico. Da domani, amico. Domani».


Io, Caio, Kiki e Ringhy ci allontaniamo in silenzio, riprendendo la strada del bar Silvia.


Siamo quasi arrivati quando Ringhy sussurra: «Noi no, noi non finiamo così, come i tossici. Noi con la roba no».


Nessuno risponde.


Sulla strada principale ci sono tre gruppi di ragazzi che ridono, corrono, si buttano acqua addosso, le ragazze tolgono le magliette, restano in reggiseno, i ragazzi urlano, saltano. Vanno verso il parco Galvani. Stasera Vasco incendia Pordenone.


Li osservo. Non mi viene da ridere.


Nel parcheggio del bar Silvia ci guardiamo senza dire niente.


Saliamo sulle biciclette.


Stringo forte le manopole gialle della mia Bmx.


È ora di tornare a casa.


Il pranzo della domenica è in tavola
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