Un friulano racconta: «Quel 29 maggio all’Heysel vidi morire il mio amico»

Adriano Zanini, di Buja, parla per la prima volta a trent’anni dalla tragedia  alla finale di Champions tra Liverpool e Juventus: «Eravamo partiti in sette, in camper, doveva essere una festa ma finì in tragedia»

BUJA. Sugli spalti dell’Heysel ha lasciato scarpe e calzini. Strappati da tifosi disperati in cerca di un appiglio qualsiasi per rialzarsi da terra. Ricorda distintamente la sensazione. Le mani che si aggrappano, strette come cinghie, attorno alle sue caviglie poco prima di scivolare via, mentre lui, ormai scalzo, guadagna la recinzione del campo, la scavalca, si tuffa sul terreno di gioco. Finalmente in salvo. Dura più di un’ora l’inferno di Adriano Zanini all’Heysel. La finale di Champions tra Liverpool e Juventus doveva essere l’occasione per una trasferta in compagnia. Sette amici, un camper e una partita di calcio da vedere. Torneranno in sei.

«Doveva essere una festa. E invece...», dice tra sé. Oggi ha 66 anni, è in pensione. Ed è il braccio destro di Enzo Cainero nell’organizzazione delle tappe friulane del Giro d’Italia. Un uomo di sport, che pure, dopo l’Heysel, in un grande stadio non ha più voluto mettere piede. Impossibile, di fronte all’erta degli spalti senza tornare con la memoria a quella sera tragica. Alle urla. Le richieste d’aiuto. I morti. Trentanove in tutto. Un friulano: Nisio Fabbro, muratore di 51 anni. Morì schiacciato contro una colonna. Trascinato dalla forza, inarrestabile, delle migliaia di persone in fuga.

A trent’anni dalla pagina più nera della storia del calcio ha deciso di rompere il silenzio. Di raccontarci il suo 29 maggio 1985. Sono appena le 17 quando fa il suo ingresso allo stadio. Destinato al settore Z. C’è tempo per guardarsi intorno. Assaporare l’attesa del fischio d’inizio. Poi, arriva il calcio che dà il via alla partita e con quello anche i primi disordini scatenati dagli hooligans. «Bandiere strappate, palle infuocate lanciate contro noi tifosi. La situazione degenerò in un attimo».

A Zanini trema la voce. «Ricordo grida dappertutto, gente che fugge in cerca di scampo. Ci ritrovammo schiacciati, spinti sempre più verso un angolo senza via d’uscita. C’erano persone a terra, che venivano calpestate. Nelle orecchie sento ancora le grida, vedo le immagini di una folla immensa».

Tre dei sette friulani riescono a uscire dallo stadio scavalcando la recinzione. Zanini invece resta dentro. «Mi sono sentito sfilare le scarpe. Poi anche i calzini. La gente finita a terra cercava aiuto ma in quel momento non potevo pensare ad altro se non alla mia salvezza. Non so nemmeno come, schiacciato e spinto, a un certo punto mi sono trovato davanti alla recinzione del campo, l’ho superata e finalmente sono entrato sul terreno di gioco». Salvo. “Miracolato”, ci corregge. A poche decine di metri di distanza un altro destino tocca all’amico Nisio.

«E’ finito massacrato contro una colonnina di cemento» dice Zanini. Poi si ferma per un attimo.«Mi sono ritrovato davanti una distesa di morti. Poi ho udito il fischio d’inizio». Agli amici, che nel frattempo si ritrovano fuori dallo stadio, la situazione appare subito chiara. Sono in cinque anziché sette. Uno di loro è finito, ferito al pari di altri 600 tifosi, all’ospedale. Fabbro non si trova. «Andammo all’ufficio di polizia sapendo già in cuor nostro la verità. La mezzanotte era passata da poco, ma l’elenco era già pronto. Quello di Nisio era il secondo nome sulla lista. Ripartimmo la mattina dopo». E non fu tutto. A Buja, per il funerale, arrivò la bara di un calabrese. Ultima beffa di questa tragedia.

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