Umberto Galimberti: «Troppi falsi miti, la filosofia li abbatta»

PORDENONE.
I miti antichi riguardavano grandi imprese e grandi uomini, o superuomini, o addirittura dei. Quelli di oggi altro non sono altro che idee stantie e acriticamente fisse, proposte come valori e pratiche sociali dalla pubblicità e dai mezzi di comunicazione di massa che forniscono loro un linguaggio che le rende appetibili e desiderabili.
I miti, insomma, ci possiedono e ci governano con mezzi non logici, ma psicologici, e quindi radicati nel profondo della nostra anima, idee che abbiamo mitizzato perché non danno problemi, facilitano il giudizio, in una parola rassicurano a prescindere dai disastri che spesso causano.
Umberto Galimberti, nella sua lectio magistralis intitolata
I miti del nostro tempo
, non è assolutamente tenero con queste convinzioni posticce, a livello sia intellettuale, sia collettivo e, anzi, invoca la rinascita negli uomini di uno spirito critico capace di far gettare nella spazzatura idee false e ciarpami assortiti che sono accettati soprattutto per pigrizia mentale. Durante il suo intervento li analizza, li smonta e ne denuncia impietosamente la natura ingannevole, mostrando come i falsi miti siano in realtà “idee malate”, che, se non vengono percepite come tali, sono ancor più pericolose perché capaci di diffondere i loro effetti nefasti senza trovare la minima resistenza.
E il filosofo, come sempre ricco di intuizioni spiazzanti, aggredisce causticamente anche tabù che sembrano intoccabili: l’amore materno, per esempio, che è sicuramente almeno bivalente, o il concetto di intelligenza, mentre tutti in realtà sanno che di intelligenze al plurale si tratta, di capacità che spesso non hanno alcun addentellato tra loro. E – si chiede – siamo davvero così fragili e vulnerabili da aver innalzato su un piedestallo la psicoterapia? E siamo davvero così ottusi da illuderci, con il culto della giovinezza e con l’ossequio alla tirannia della moda, che la realtà della vecchiaia sia rinviabile e dissimulabile sine die? La risposta viene quasi naturale: molti di questi miti vengono creati e alimentati per sostenere un mercato artificioso in tutti i risultati, tranne che in quello che interessa maggiormente chi queste idee fa nascere e alimenta: il guadagno.
Ma se questi sono miti individuali, non meno forti e pericolosi sono quelli collettivi: la tecnica, le nuove tecnologie, il mercato, la crescita economica, la globalizzazione, il concetto di razza, la sicurezza. E man mano ne parla la voce un po’ raspante di Galimberti acquista tono e gronda indignazione per quello che vede accadere nel mondo di oggi. «Prendiamo il mercato – dice – e guardiamo i nostri giovani: stanno sicuramente peggio di quelli del Sessantotto, ma mentre quelli lottavano, questi sono rassegnati perché li hanno convinti falsamente che il mercato è un elemento naturale che non si modifica. Ma chi l’ha detto? Ma se finora il mercato è sempre stato modificato da spinte a esso esterne».
E con tono deciso continua: «E pensate al concetto di crescita. Se si parla di crescita zero sembra che si sia nel mezzo di una tragedia. Ma chi lo può sostenere ragionevolmente? Fino a dove, fino a quando si potrà continuare a crescere? Fino a quando ci saranno le risorse naturali per sostenere una crescita continua dal punto di vista economico e un pardita contiunua dal punto di vista naturale?».
Le conclusioni? Semplici da individuare e difficilissime da mettere in pratica: «Bisogna ridiventare critici», dice con forza Galimberti che se la prende anche con la filosofia, la sua materia: «Il compito della filosofia è quello di problematizzare l’ovvio. La filosofia deve cessare di essere autoreferenziale e deve riprendere a quardare il mondo, proprio come faceva con Socrate e con Platone».
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