Uccise moglie e figlioletta: si suicida in cella

PORDENONE. «Ho fatto il male più grande che un padre può fare. Un padre deve dare la vita, non toglierla. La punizione della legge non sarà mai grande come il mio dolore e la mia disperazione. Anche se mi dicessero che devo morire. Perché io sono morto con Touria e Hiba».
Erano le parole pronunciate tra le lacrime la mattina del 28 ottobre scorso prima, che il gup si ritirasse per la sentenza, da Abdelhadi Lahmar. Quelle dichiarazioni spontanee rese in aula non avevano cambiato il suo destino processuale.
Il giudice, pochi minuti dopo, aveva letto la sentenza: ergastolo. Carcere a vita per aver massacrato a colpi di accetta la moglie Touria, 30 anni, che da lui voleva divorziare, e poi, con un coltello, aver sgozzato la figlioletta Hiba, 6 anni, che dormiva nella sua cameretta. Lui stesso aveva poi contattato il 112: la chiamata era stata girata alla polizia e infine gli agenti erano arrivati nell'appartamento di via San Vito. Era il 15 aprile 2015. L’ergastolo era stato confermato in appello il 19 maggio di quest’anno.
Lahmar ha retto a quel dolore, a quella disperazione che aveva dichiarato di portare nel cuore, fino a mercoledì pomeriggio. Erano da poco passate le 14. Invece di scendere per l’ora d’aria è rimasto nella sua cella, da solo, e ha realizzato un cappio rudimentale. Vani i tentativi di rianimarlo da parte prima di un agente penitenziario e poi dei sanitari del carcere e del 118.

Lahmar, 42 anni, era stato trasferito ormai da diversi mesi nel carcere di Trento. È difficile, adesso, non ripensare a quelle parole: «Io sono morto con Touria e Hiba».
Il duplice omicidio nell’appartamento di via San Vito, dove Lahmar abitava con la moglie e la figlioletta, aveva sconvolto la città, a meno di un mese dall'uccisione di Teresa e Trifone. Enormi l’impressione e l’indignazione.
Erano state organizzate iniziative per dire "no" alla violenza sulle donne e un corteo per chiedere giustizia: "Vogliamo che il marito prenda l'ergastolo" era la scritta sui cartelli. Touria, che lavorava al ristorante Al Gallo, si era rivolta all'associazione Voce donna di Pordenone, chiedendo aiuto per sottrarsi alle violenze del marito, ma prima che fosse possibile aiutarla lui l’aveva uccisa, spegnendo per sempre anche il sorriso della figlioletta.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto