Storia della Safau: la grande fabbrica e i suoi lavoratori

Oggi a Udine la presentazione del volume scritto da Andrea Negro. Le vicende dell’acciaieria e il legame che negli anni si creò con la città

Gilda Zazzara

“Acciaio friulano. Storia e memoria della Safau di Udine e dei suoi lavoratori” è il titolo del volume di Andrea Negro pubblicato dall’Istituto friulano storia movimento liberazione che ricostruisce la storia della fabbrica friulana che sarà presentato questo pomeriggio alle 17 al Salone del Popolo a Palazzo D’Aronco di Udine. Nell’occasione sarà proiettata una clip tratta dal documentario “L’acciaio dentro. Vite, fatiche e sudore accanto al camino della Safau”. Pubblichiamo un estratto della prefazione del volume della professoressa dell’Università Ca’ Foscari di Venezia Gilda Zazzara.

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Non necessariamente chi viaggia in treno da e per Udine nota, nei pressi della stazione, la carcassa di una grande fabbrica. È ancora meno comune che un paesaggio ex industriale come i molti che si osservano nei dintorni ferroviari accenda una curiosità, e da lì un’ipotesi di ricerca: che «sotto le rovine arrugginite si possano nascondere delle preziose memorie del lavoro».

È successo ad Andrea Negro a un certo punto dei suoi continui viaggi da studente universitario a Venezia. La formazione in storia ha dato a quell’attraversamento di luoghi familiari gli strumenti per diventare conoscenza e memoria, ha permesso il salto dalla semplice percezione di un passato alla sua cognizione e restituzione.

Uno dei principali meriti di questo libro, nato da una tesi magistrale in Storia a Ca’ Foscari, è di non aver chiuso la vicenda della Società per azioni Ferriere e Acciaierie di Udine (Safau) nel suo ombelico, ma di averla guardata da tre prospettive diverse e intrecciate: impresa, lavoro e città.

La storia d’impresa non è soltanto di avvicendamenti di proprietà, ma soprattutto di stratificazioni di stadi e saperi tecnologici. La febbrile ricerca di innovazione è il filo rosso di una storia tutt’altro che locale, come dimostra l’ingresso del gruppo Techint di Agostino Rocca negli anni Cinquanta, profondamente incarnata nel lavoro di ingegneri e tecnici innamorati del “sublime” acciaio.

Negro riesce a ricostruire con precisione e allo stesso tempo semplicità una catena di invenzioni, sfide, successi e fallimenti che riportano la tecnica alla sua matrice umana, quindi sperimentale e creativa.

A quel gusto del saper fare, alla cultura produttivista e alla passione per l’acciaio partecipano anche i lavoratori. La ricerca ha avuto la fortuna di disporre di un nocciolo forte di memoria organizzata, tenuta viva dalla rete informale, ma tutt’altro che liquida, degli Amîs de Safau. Ciascuno con una propria traiettoria e carriera di lavoro, tutti accomunati da sentimenti di orgoglio, nostalgia, identificazione con la fabbrica.

Andrea Negro ha saputo conquistare la fiducia del gruppo, ma non si è accomodato nella sua narrazione, riconoscendola propria degli strati più specializzati. Ha cercato delle contro-memorie.

Così, accanto al racconto di relazioni industriali sane e continuative, è emerso il ricordo del filtro politico nel reclutamento delegato ai parroci, dell’autoritarismo dei capi e dell’espulsione degli operai più politicizzati; accanto alla poetica di un mestiere demiurgico, di manipolazione del fuoco, si è fatto largo il dramma di ambienti pericolosi e nocivi per i lavoratori e per l’ambiente.

Negli anni Settanta la nuova proprietà avvia una grande ristrutturazione, con l’apertura dello stabilimento di più moderna concezione nella frazione di Cargnacco. La transizione non è facile né indolore, e nel decennio successivo l’azienda attraversa una gravissima crisi finanziaria dalle ragioni non del tutto chiarite, che hanno a che fare con intrecci di favori e promesse tra impresa e politica.

La Safau arriva sull’orlo del fallimento ed è la mobilitazione dei lavoratori a evitare una deindustrializzazione senza contropartite. In quella fase il consiglio di fabbrica rinnova una tradizione non antagonistica (a differenza della “rossa” e turbolenta Bertoli), che assume la forma di una cogestione responsabile della crisi. Il prezzo della delocalizzazione a raggio corto è alto: due terzi degli addetti se ne vanno, approfittando di generosi sostegni di welfare pubblico, ma la chiusura dello stabilimento di Udine, nel 1983, è contrattata, avviene senza strappi eclatanti. Anche da quella tenace resistenza a essere liquidati nasce, nel 1988, una società che tutt’ora mantiene la provincia ai primi posti in Italia nell’elettrosiderurgia.

È una deindustrializzazione a lieto fine, insomma, ma resta tale se con questo termine intendiamo la fine di un certo modo di concepire il rapporto tra lavoro e senso di sé e l’invisibilizzazione sociale degli operai. Come dice uno degli intervistati, «nell’immaginario collettivo quegli anni c’era la centralità operaia, adesso pare che i paria della società siano gli operai, un mondo che si è ribaltato».

Le rovine della vecchia Safau - come tutte le rovine in fondo, anche quelle conservate per essere contemplate - affascinano perché evocano la radicalità del cambiamento e la materialità della storia.

Rivolgono anche una domanda alla città che le eredita: a che servono le memorie dell’acciaio? Udine città-salotto, che si sente un po’ veneziana, borghese e terziaria, non si è mai percepita come città industriale. In questo profondo Nordest gli operai stanno in campagna e la campagna sta dentro la fabbrica. È uno degli aspetti meglio tratteggiati della ricerca di Negro: quella udinese è una classe operaia dispersa nelle frazioni, che non ha mai reciso i legami con il mondo rurale, nemmeno nell’uragano del boom della piccola impresa e dei distretti.

La grande fabbrica urbana non ha significativamente mutato questa integrazione tra modernità e tradizione, se non per ristretti gruppi di lavoratori.

Non sarà certo questo libro - e nemmeno se lo propone - a cambiare l’autorappresentazione cittadina. Ha dato però un contributo importante a ricordare una storia non solo locale di trasformazioni del lavoro e del territorio.

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