Santuz: "Troppi misteri sull'assassinio di Moro vanno ancora chiariti"

L'anniversario della morte dello statista. La testimonianza dell’ex ministro dei Trasporti democristiano. «Appresi direttamente che la sua scorta era molto preoccupata»
La foto di Aldo Moro scattata dalle Brigate Rosse e diffusa il 20 aprile 1978. ANSA
La foto di Aldo Moro scattata dalle Brigate Rosse e diffusa il 20 aprile 1978. ANSA

UDINE. E’ il 16 marzo del 1976, la giornata in cui il Parlamento decreta la nascita del governo Andreotti IV, monocolore con l’appoggio esterno del Pci che supera così la fase della non sfiducia. Votano contro soltanto Pli, Msi i radicali e Democrazia proletaria.

Un’operazione politica targata Aldo Moro che era riuscito a convincere la Dc che mantenere il Pci all’opposizione, quando già partecipava a pieno titolo al sottogoverno, non aveva alcun senso. Ma quel 16 marzo diventa una data che sfregerà con il sangue l’immagine della nostra democrazia per il rapimento dello stesso Moro e per l’uccisione della sua scorta.

Il corpo del leader democristiano sarà ritrovato il 9 maggio dello stesso anno dentro una Renault 4 in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe oscure, quartier generale del Pci. La morte di Moro fu anche la tomba del compromesso storico.

«Ho letto e sto ancora leggendo tutto quello che riesco di quegli anni e sono giunto alla conclusione che non soltanto Moro aveva anticipato i tempi creandosi nemici in Italia e all’estero, ma anche che non tutto è stato ancora chiarito perché le zone d’ombra sono tante e tutte evidenti». A dirlo è l’ex parlamentare friulano Giorgio Santuz, un moroteo della prima ora, convinto, «come del resto lo fu Moro che l’Italia in quei mesi fosse a un passo della guerra civile».

Santuz si dice convinto che Moro ebbe un’intuizione da grande statista. «Sono certo - spiega - che Moro temesse che il terrorismo brigatista provocasse una reazione golpista della destra estrema che contava su parte dei servizi deviati e di Gladio. Aggregare il Pci nella gestione del potere avrebbe signficato anche cosringerlo a liberarsi dai lacci del Patto di Varsavia. Nel contempo, Moro avrebbe rassicurato le potenze occidentali che l’adesione alla Nato non era in discussione».

Il 23 marzo 1976, i capi di Stato riunitisi per il G7 a Portorico avevano prospettato allo stesso Moro la possibilità di togliere gli aiuti all’Italia se il Pci fosse entrato al governo. «Moro - insiste l’ex senatore - ebbe il solo torto di avere anticipato i tempi, non riuscendo a convincere i più della sua strategia».

E tra i tanti nemici di Moro c’era Henry Kissinger, «un cow boy pragmatico e determinato a fare sì che il mondo rimanesse bindato dentro i due blocchi antagonisti».

Ci fu un incontro storico a Washington tra lo stesso Kissinger, Aldo Moro e l’allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Era il settembre del 1974 e Moro era ministro degli Esteri. «Io mi trovavo in America per motivi di lavoro - rivela Santuz - e venuto a conscenza del vertice telefonai immediatamente al Console che mi invitò per il giorno successivo. Arrivai e incontrai per primi tre giornalisti, Massimo Nava, Jas Gawronski e Vittorio Guido Zucconi. Furono loro a informarmi di avere ascoltato le urla di Kissinger contro Moro.

«La conferma mi arrivò pochi minuti dopo. Durante i convenevoli tra me, mia moglie, il presidente Leone e sua moglie arrivò Moro. Mi discostai e gli chiesi come andassero le cose. Mi rispose di sentirsi mortificato, di voler rientrare in Italia. Mi sento male», aggiunse Moro.

«Quattro anni dopo Moro difese ancora le sue idee - continua Santuz - che approdano in Parlamento. Il 29 febbraio, pochi giorni prima del suo rapimento, annunciò che la crisi di governo era formalmente chiusa e che il Pci non avrebbe fatto ostruzione. Quella sera - ricorda Santuz - fui uno dei primi a uscire dal Parlamento. Incontrai il capo scorta di Moro, Oreste Leonardi.

Gli riferii che Moro sarebbe uscito di lì a poco. Ricordo perfettamente la concitazione di quei minuti con Leonardi tutto preso a ottenere le dovute rassicurazioni sulla sicurezza del percorso. Me lo ricordo, teso e preoccupato. Ed è proprio per questo che poi ho messo in relazione quel timore con quanto avvenne il 16 marzo».

Santuz si ferma un attimo, poi riprende. «Io leggo che quando Moro fu rapito e la sua scorta assassinata, Leonardi aveva - come gli altri - la pistola nel borsello e sotto il sedile. Mi sono chiesto come mai soltanto pochi giorni prima il caposcorta fosse così preoccupato del tragitto da compiere con Moro mentre quella mattina evidentemente era sereno e con lui anche i colleghi. Insomma, la scorta pareva non temere alcunché e le Br erano certe che Moro sarebbe passato da via Fani.

Qualcosa non mi tornava. Ed è anche per questo che sto rileggendo quei giorni e quei mesi. Tra l’altro, da quanto emerge dalla commissione parlamentare presieduta da Fioroni, verrebbe confermato che sul luogo dell’agguato non c’erano soltanto brigatisti.

C’era ad esempio un uomo nascosto proprio dal lato dove era seduto Leonardi e fu lui a uccidere il capo scorta. Ma fu notata transitare anche una moto Honda con due persone incappucciate e un colonnello dei servizi segreti che poi disse che era transitato per via Fani perché stava raggiungendo un amico. Vede, le Br non avrebbero mai potuto ammettere di essere state infiltrate, ma la presenza di qualche facilitatore dell’agguato mi pare cosa evidente».

Ma c’è dell’altro. Santuz si dice certo che c’era grande tensione tra chi voleva salvare Moro e chi lo voleva morto. «Nell’abitazione di Moretti, durante la prigionia di Moro, qualcuno - dice ancora - entrò in quella casa e, volutamente suppongo, aprì la doccia cosicchè l’acqua poi filtrò nell’appartamento sottostante. Scattò l’allarme e si scoprì che quello era un covo delle Brigate rosse.

Bene, invece di effettuare un’operazione di intelligence e attendere che Moretti rincasasse, arrivarono sul posto 3 auto della polizia a sirene spiegate. Immagino che Moretti quando fu nelle vicinanze se la diede a gambe levate. E ancora, perché i vertici palestinesi - e Moro aveva sempre difeso la loro causa - non fecero pressione per convincere i brigatisti, parte dei quali si addestrava proprio in Palestina, a rilasciare lo statista?».

L’ex parlamentare friulano si dice anche certo che l’America non c’entri («a Kissinger non gliene fregava nulla delle Br, ma degli equilibri internazionali») la vicenda e che rapimento e morte di Moro «sono una storia tutta italiana. Le Br hanno avuto - lo ripeto - alcuni facilitatori che hanno agito per conto proprio e che forse hanno beneficiato di protezioni. Resta il fatto che se fosse rimasto in vita, Moro avrebbe ribaltato il quadro e gli equilibri politici. Moro è morto per la sua lungimiranza e le sue intuizioni da statista. Senza avere colpa alcuna».

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