Riciclaggio in Bcc, impresari “prescritti”

La prescrizione ha messo la parola fine sulle accuse di evasione fiscale, appropriazione indebita e trasferimento fraudolento di valori con le quali gli imprenditori edili cividalesi Andrea e Daniele Specogna erano finiti a processo, nell’ambito della maxi inchiesta per presunto riciclaggio di denaro che nel 2010 aveva colpito e affondato gli allora vertici della Banca di credito cooperativo di Manzano. Nell’unico filone processuale rimasto ancora in piedi per cinque degli iniziali 22 imputati, il tribunale collegiale di Udine ha dichiarato sentenza di non doversi procedere nei confronti dei due fratelli, per estinzione dei reati loro contestati, a seguito di intervenuta prescrizione degli stessi.
Il verdetto è stato pronunciato in apertura d’udienza dal collegio presieduto dal giudice Paolo Alessio Vernì (a latere, i colleghi Roberto Pecile e Carlotta Silva), su richiesta dello stesso pm Marco Panzeri, coordinatore delle indagini condotte dalla Guardia di finanza e titolare delle pile di faldoni accumulate sul caso. Il difensore di fiducia, avvocato Michele Coceani, si era espresso per l’assoluzione dei propri assistiti, associandosi alle conclusioni del magistrato. Dopo la lettura della sentenza, pronunciata con motivazione contestuale, il processo è proseguito con la sfilata dei testi dell’accusa.
Con l’uscita di scena di Andrea, 46 anni, e Daniele Specogna, 49, entrambi residenti a Cividale, gli imputati restano tre: Dino Cozzi, 67 anni, di San Giovanni al Natisone, ex direttore della Bcc, difeso dall’avvocato Riccardo Seibold, di Trieste, Salvatore Capomacchia, 73, di Udine, ex presidente del Collegi sindacale, assistito dall’avvocato Ezio Franz, e Davide Bonetto, 54, di Roma, allora direttore di “Amphora Fiduciaria spa”, difeso dagli avvocati Diddi, di Roma, e Cocco, di Rimini. Nei confronti di tutti loro (e non, invece, degli Specogna), la Banca d’Italia si è costituita parte civile, con l’avvocato Marco Mancini, di Roma.
Quando scoppiò, l’inchiesta si abbattè sull’istituto di credito come uno tsunami ed ebbe l’effetto di azzerarne i vertici. Pesante il castello accusatorio: oltre 4 milioni di euro investiti su clienti in parte inesistenti, in parte ignari e in parte legati da vincoli familiari, per “pulire” gli incassi in “nero” dei due imprenditori e correntisti cividalesi. Le indagini erano partite proprio da una serie di accertamenti fiscali condotti sull’attività degli Specogna e si era poi allargata, fino a coinvolgere persone che, all’epoca – dal 1996 al febbraio 2010 –, ricoprivano incarichi amministrativi e di direzione per la banca e alcune sue filiali.
Il riciclaggio, insomma, era “figlio” dell’evasione fiscale contestata agli impresari. Per una parte degli imputati, tra cui Cozzi, la Procura aveva ipotizzato anche l’associazione a delinquere, oltre all’ostacolo a Bankitalia. In udienza preliminare, il gup aveva applicato 15 patteggiamenti per complessivi 17 anni di reclusione, disposto i cinque rinvii a giudizio del processo in corso, e assolto i due imputati che avevano optato per l’abbreviato.
Dei tre capi d’imputazione contestati ai fratelli Specogna, il solo Andrea era stato chiamato a rispondere dell’evasione delle imposte di 255.279 euro, per l’anno 2005, in relazione a 773.573,80 euro di ricavi non contabilizzati per attività immobiliare dei complessi edilizi Residenza Palma, di Udine, e Rosa dei Venti e alle Querce, di Buttrio. Entrambi erano accusati invece di appropriazione indebita per complessivi 1.413.573,80 euro, incassati in “nero” dalla “Specogna & Figli spa” e fatti confluire su rapporti bancari loro intestati, per scopi estanei alla società. Operazioni bancarie, insomma, che, in tesi accusatoria, da un lato avrebbero consentito loro l’occultamento della provenienza delittuosa del denaro e, dall’altro, avrebbero prodotto denaro certo in investimenti finanziari.
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