Quando un gruppo d’intellettuali inventò l’autonomismo

UDINE. Era il più giovane. Partecipava a tutte le manifestazioni per l’università a Udine. «Ero uno di quelli che faceva casino in piazza. Volevamo farci sentire, ma senza violenza», ricorda oggi Adriano Ceschia.
Un giorno, durante una protesta la polizia decise di caricare. Uno studente finì in ospedale. Poco più tardi - racconta Ceschia - Corrado Cecotto, che faceva il primario, pre Checo Placerean, Arturo Toso e Raffaele Carozzo decisero di recarsi in visita allo studente.
Il dado era tratto: per i “magnifici” quattro era tempo di uscire allo scoperto. Poche settimane dopo, il 9 gennaio 1966, all’Astoria, un gruppo di intellettuali, docenti e sacerdoti, fondò il Movimento Friuli. Alla “prima” oltre ai quattro mentori parteciparono tra gli altri Silvano Franceschinis, Adelchi Ius, Arturo Toso, Gianfranco Ellero, don Pietro Londero, pre Checo Placerean, Sandro Comini, Etel Redo Pascolo, Fausto Schiavi e Cornelia Puppini.
Iniziava così il sogno di un Friuli altro, affrancato da Trieste come da Roma, ebbro di libertà e autonomia, orgoglioso della sua storia e della sua cultura. Smanioso di riscrivere il proprio destino parlando di servitù militari, di emigrazione, di lingua, di dignità di popolo. Ma il sogno rimase tale, giacchè come una crisalide il Movimento Friuli non si trasformò mai in farfalla.
E oggi come ieri le domande sul suo mancato decollo sono ancora affidate a pareri, ipotesi, congetture, analisi. Già, perché la sirena leghista catapultata da fuori potè laddove i nobili padri dell’autonomismo avevano fallito? Roberto Visentin, che nel MF, era entrato nel 1970, non ha dubbi in merito. «Quello che è accaduto dimostra un’amara verità. Noi avevamo i cervelli, ma poche braccia. Il MF annoverava un gruppo dirigente composto di fini pensatori con una disrmanete capacità di analisi, eppure...».
Già un gruppo dirigente che oggi sarebbe definito di eccellenza: preparato e trasversale, che aveva sconvolto e fatto quasi impazzire la bussola deri padroni del palazzo di allora, democristiani e socialisti in primis. La Balena bianca era la più preoccupata.
Aveva assistito all’ammutinamento di diversi sacerdoti di quella che divenne Glesie local, ma anche di propri rappresentanti. Il MF aveva fatto irruzione nell’agone politico spizzando tutti. Aveva spalancato le porte alla protesta popolare per l’università friulana, quando gli altri partiti - che poi si accodarono - dormivano il sonno dei complici romani.
Roberto Iacovissi che alcuni lustri dopo avrebbe avuto incarichi amministrartivi, aveva aderito al MF nel 1968. Ricorda un episodio che mette a nudo la paura della Dc nei confronti dell’incipiente rivendicazione autonomista. «Eravamo alla vigilia delle elezioni del 1968. Voli partecipare a un raduno della Dc nella sala Pellegrino, a Gemona.
Quando toccò a Mariano Rumor, uno dei big nazionali di allora, mi convinsi che davvero la Dc tremava. Rumor non parlò del Pci, ma della nostra ascesa. Chiedeva ai militanti chi fossimo, chi ci avrebbe votato, che cosa volevamo». «Noi - dirà pochi anni dopo lo stesso Iacovissi - non eravamo né di Destra, né di sinistra. Eravamo semplicemente avanti».
Analisi su cui concorda anche Visentin. «Come spesso avviene il prodotto era buono, ma i tempi erano sbagliati. Quando il MF parlava di identità, di capacità di autogestione era avanti e in anticipo rispetto a tutti. Il MF aveva cultura a capacità, ma mancava in fase operativa. Forse era addirittura elitario almeno nella sua classe dirigente. I partiti presero paura. Cercarono, in parte riuscendoci, di scipparci diverse istanze. Non è un caso che i cartelli con le scritte in friulano comparvero quando ornai noi eravamo fuori dai giochi».
Politicamente, il MF si era ritirato nel 1992, decidendo però di non chiudere i battenti mantenendo almeno il simbolo. Quel simbolo che aiutò a trascinare pochi anni dopo Cecotti alla conquista di palazzo D’Aronco. Erano duri e puri, quelli del MF.
«Nessun compromesso con il potere», ricorda Marco De Agostini, l’artefice dell’incontro di oggi per ricordare i 50 anni. «Io - aggiunge ero dell’idea - che la politica è l’arte del possibile e non del compromesso. Ci tiravano per la giacca, ci proponevano posti in giunta, ma noi eravamo irremovibili.
Preferivamo lavorare su alcuni presideneti della regione, come Biasutti e Turello, per andare all’incasso di quelle che ritenevamo le istanze pro-Friuli. Biasutti stessi sposò la mia idea di Trieste città metropolitana - che è un’altra ipotesi rispetto a quella ventilata in questi mesi - che puntava al’autonomia del Friuli». Anche De Agostini conferma con rammarico che quel sogno autonomista andò in frantumi dopo il booom dei 40 mila voti nel 1978 e quasi il 5 per cento di suffragi? «Perchè finì tutto? Perchè alla fine vinse il richiamo dei partiti».
Ceschia ha un giudizio più tranchant: «La Lega veniva da Milano. E quando uno arriva da fuori... È successo di recente con la Serracchiani. Basta che il comandante sia esterno. Siamo alpini, no? E gli alpini hanno sempre combattuto in conto terzi».
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