Quando Gorizia era La città del basket

Quindici anni fa l’ultima stagione nella massima serie, poi il rapido declino. Restano ricordi, aneddoti, emozioni. Il presidente Ugg Sfiligoi: risorgeremo

GORIZIA. Una indimenticabile domenica di inizio primavera: è il 21 marzo 1999 e con la clamorosa vittoria 65-63 sulla corazzata Benetton Treviso la Pallacanestro Gorizia griffata dall’autarchica sponsorizzazione Sdag (la società che gestisce l’autoporto) regala ai quasi 4 mila spettatori che fanno vibrare il palasport di via della Grappate una gioia straordinaria, concludendo con un’entusiasmante quanto insperata salvezza la stagione in serie A1.

Nessuno può immaginare che quella sarà l’ultima partita della gloriosa storia della Pallacanestro Gorizia. Tre mesi dopo si concretizzerà la vendita dei diritti a Pesaro che sancirà la fine del basket di vertice in una città che per decenni è stata un faro della pallacanestro italiana, producendo campioni e allenatori che hanno fatto la storia, su tutti Paolo Vittori, Pino Brumatti e ovviamente Tonino Zorzi.

Cosa è rimasto a 15 anni di distanza dal canto del cigno? Cominciamo da oggi un viaggio tra presente, passato e futuro del basket goriziano, partendo dall’attuale presidente dell’Ugg Moreno Sfiligoi.

«Sembra incredibile che siano già passati 15 anni dal quell’ultima partita, vinta contro una Benetton che all’epoca era una delle squadre più forti d’Europa, e vivendo a Gorizia si possono percepire il rimpianto, il senso di vuoto rimasto da allora.

Nonostante tutto, però, l’amore viscerale per il basket è rimasto vivo, come una fiamma che arde sotto la cenere. Questa città non aspetta altro che tornare a infiammarsi di passione per la “sua” pallacanestro».

Parte sul filo delle suggestioni la riflessione sulle sorti del basket di vertice di Moreno, che oltre ad essere stato protagonista sul campo, da goriziano doc, di alcune delle stagioni più belle della storia cestistica isontina ne custodisce oggi l’eredità morale.

Per l’attuale presidente di quell’Unione ginnastica goriziana che ha portato per decenni il nome del capoluogo isontino alla ribalta nazionale della palla a spicchi, il legame con la storia è tangibile.

«Quando ogni giorno cammino nella nostra sede di via Rismondo è inevitabile allungare lo sguardo sulle foto, sui trofei, sui cimeli che colmano pareti e sale – spiega l’ex pupillo di coach Jim Mc Gregor -. È bello aver vissuto in prima persona una parte di quella storia ed è chiaro che quell’eredità la sentiamo ancora viva, anche se ormai il basket di vertice è lontano anni luce e i contesti sociale ed economico sono profondamente mutati».

Cosa ha rappresentato il basket per Gorizia?

«Questa città dagli anni Cinquanta in poi è stata un’autentica culla di questo sport. La pallacanestro è stata il grande amore sportivo dei goriziani e i grandi amori, in qualche modo, non finiscono mai».

Quello di un ritorno al vertice è un sogno impossibile?

«Difficile illudersi, ma non bisogna perdere la speranza. Penso soprattutto ai più giovani: è un peccato che non possano conoscere le emozioni, la felicità che provavamo noi da ragazzini quando andavamo alle partite di serie A che si giocavano all’Ugg. E poi le domeniche nel nuovo palazzo di via delle Grappate che diventavano una festa per tutta la città».

Un’intera generazione di giovani sta crescendo senza aver mai visto il basket di vertice a Gorizia...

«Il filo della tradizione familiare non si spezza. Certo, oggi i ragazzi hanno anche stimoli e interessi diversi. I tempi cambiano eppure constato che i padri goriziani che adesso hanno 40 o 50 anni hanno trasmesso la passione per il basket ai propri figli. È chiaro che non poter vedere dal vivo i grandi campioni che si potevano ammirare in via delle Grappate non aiuta a perpetuare la stessa passione di allora. Forse gli stessi goriziani per anni hanno dato per scontato che una cittadina di 35 mila abitanti fosse in grado di competere in serie A e di affrontare colossi europei come la Virtus Bologna, l’Olimpia Milano o Treviso. Dovevamo renderci conto che si trattava di qualcosa di straordinario».

Oggi per il basket di vertice servono milioni di euro e gli imprenditori disposti a investire sono in via di estinzione...

«Non so se quella dell’ “uomo solo al comando” sia l’unico modello da prendere in considerazione. Magari una cordata composta da più persone, ma con adeguate capacità e un legame con il territorio può funzionare meglio».

L’epilogo del 1999 fu colpa di inesperienza o incapacità?

«Non mi va di giudicare il lavoro fatto da altri. Per più di un decennio c’era stato Terraneo che aveva tenuto in piedi la Pallacanestro Gorizia con grandi sforzi. Poi, in quell’ultima stagione, le cose sono cambiate e i risultati, purtroppo, sono stati quelli sotto gli occhi di tutti. Ma quell’epilogo non può che dare ulteriore valore a quanto fatto precedentemente da Terraneo. Certo che in tutti i goriziani resta ancora un grande rimpianto».

Nel suo personale album dei ricordi cestistici goriziani quali sono i momenti indimenticabili?

«Ovviamente ce ne sono tanti, ma dovendone scegliere due direi la vittoria a Varese con un incredibile tiro da 3 di Biaggi nel finale, stagione ’81-82, e poi la serie di play off dell’anno successivo, quarti di finale. Affrontammo il Banco Roma di Larry Wright che poi avrebbe vinto lo scudetto e per poco non superammo il turno. La stampa sportiva ci elogiò e si parlò anche di un arbitraggio discutibile».

Quale il giocatore straniero più forte che abbia mai vestito la maglia goriziana?

«Ho avuto la fortuna di giocare con compagni super. Mayfield è stato forse il più completo. Anche Pondexter, Charlie Jones, simpaticissimo, e John Lang erano ottimi giocatori e grandi persone. Ma nessuno era come Tom Lagarde. Purtroppo quando è arrivato da noi aveva già patito infortuni gravissimi e interventi alle ginocchia ma era un fenomeno. Anche reggendosi a malapena in piedi era immarcabile: troppa tecnica, troppa intelligenza, troppo talento. Ricordo più di una partita che giocammo contro Milano in cui contro Meneghin fece quello che voleva. Solo le ginocchia di cristallo gli hanno impedito di essere una stella nell’Nba. Ed era un ragazzo con una testa spaventosa. In un anno e mezzo aveva imparato a parlare l’italiano perfettamente. Si era laureato a North Carolina e dopo il ritiro si mise a lavorare a Wall Street. Ogni tanto ci sentiamo ancora. Tom resta una persona eccezionale».

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