Positivo dunque negativo

Parto da un’osservazione su alcune parole che adoperiamo, abituati ormai a esprimerci nell’orizzonte dell’attuale pandemia: è curioso l’uso che di solito facciamo dei termini “positivo” e “negativo”. Può sembrare qualcosa di poco rilevante nell’ambito della sconfortante manomissione e della necessaria manutenzione del linguaggio corrente, vorrei però ricavarne lo spunto per arrivare a un problema significativo, cioè alla nostra difficoltà di mantenerci dentro quel pensiero critico da cui è sempre più facile sbandare nelle condizioni di oggi.

“Positivo dunque negativo”. Fai un tampone per sapere se sei contagiato e dopo qualche ora vieni magari a sapere che risulti “positivo” al Covid, un verdetto poco simpatico che può avere conseguenze anche molto negative sulla tua normale vita quotidiana. All’opposto tiri un sospiro di positivo sollievo se ti viene comunicato che sei risultato “negativo”. Niente di strano, il linguaggio che viene adoperato è a suo modo chiarissimo, nessun dubbio sull’interpretazione delle parole, nessuna manomissione. Eppure.

Dobbiamo proprio inserire un “tuttavia” perché, a ben vedere, ci stiamo abituando a un uso di questi termini alquanto mobile. Non ci facciamo caso, dato che ci sembra del tutto ovvio che qui la parola “positivo” possa avere un senso, per dir così, “cattivo”, mentre la parola “negativo” equivalga in questo caso a “buono”. Ma non è certo l’uso che ne facciamo di solito.

Per esempio, proviamo a trasferire queste parole immaginandole sulla bocca di un giovane studente che torna a casa dopo aver sostenuto a scuola una verifica importante: “Come è andata?” chiedono i genitori e lui risponde “Negativo!”. “Bravo, hai superato la prova che ti preoccupava tanto”. Oppure, al contrario, lui (o lei) risponde: “Positivo, purtroppo! Me lo aspettavo”. Come se positivi potessero essere i giudizi dal 5 in giù e negative le valutazioni dal 6 in su.

D’altronde, che il termine “positivo” contenga un sì e il termine “negativo” implichi un no vale un po’ ovunque, in ogni aspetto delle nostre esistenze e da sempre, a partire dal gesto del pollice che il detentore assoluto del potere alzava o abbassava addirittura per decretare la vita o la morte della persona da giudicare.

L’obiezione che si può fare a tali considerazioni è abbastanza evidente: dipende dalla domanda. Se chiediamo a un esame o a un esaminatore “sono malato?”, la risposta “sì, sei malato” può essere espressa con la parola “positivo”, mentre quella che ci toglie dall’ansia e ci dice “No, tutto a posto” può venire sintetizzata in un liberatorio “Negativo”. Niente da eccepire sulla correttezza dei termini adoperati in queste risposte, ma è opportuno tener conto del fatto che le parole sono “vive” e non si lasciano mai azzerare in una rigidità tecnica. Non basta che corrispondano oggettivamente ai quesiti, aggiungono sempre tonalità e riferimenti collegabili ai vissuti personali di chi le riceve. Insomma, ciò che viene definito positivo o negativo porta sempre con sé un residuo che mantiene la tonalità di ciò che è buono e di ciò che è cattivo.

Dobbiamo abituarci a una simile neutralizzazione delle parole? Stiamo forzosamente facendolo, anche attraverso l’abuso della lingua inglese, ma non è affatto scontato che questa sia la strada migliore per mantenere al linguaggio la sua decisiva potenzialità.

Nel caso che ho richiamato potremmo, però, trovare anche un incentivo per nutrire un poco il nostro spirito critico, che appare ogni giorno più smunto. Il pensiero critico, infatti, si assottiglia tanto più quanto più lo scenario si scandisce nettamente in un “sì” tutto positivo e in un “no” tutto negativo, senza alcuna commistione o sovrapposizione.

Voglio dire che se l’esempio dell’esito dei tamponi ci portasse a riflettere su come le nozioni e le idee di positivo e negativo possono confondersi e magari anche confonderci, se insomma fossimo indotti a dubitare sul valore assoluto dei termini qui in questione, cioè appunto positivo e negativo, del fatto che non si tratta di parole piantate nel bosco del discorso una volta per tutte, ma di parole che ogni volta chiedono di essere circoscritte, ridiscusse e reinterpretate, magari lavorando sulla loro permeabilità e sui modi con cui possono giocare ciascuna sul terreno dell’altra, avremmo un buon guadagno per il nostro declinante spirito critico.

Coltiveremo un po’ quella capacità di esitare e di dubitare che oggi viene quasi sempre travolta dalla necessità di affermare, con la massima rapidità e in maniera incontrovertibile, quello che abbiamo in testa. Qualche incertezza su ciò che è positivo e ciò che è negativo (magari sulla scorta e comunque al di là dell’esempio da cui ho preso spunto) sarebbe opportuna per rimettere in moto un pensiero che tende a ripetersi, ad assottigliarsi e a diventare sempre più intollerante e dunque cieco rispetto ai suoi limiti.

Se il “positivo dunque negativo” si trasformasse da una sorta di witz a uno stile di pensiero, credo che tutti ne avremmo un guadagno. —

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