Pordenone, un pranzo da ciechi per beneficenza: «Ora sapete com’è»

Nella sala buia gli unici a muoversi senza problemi fra tavoli e portate sono stati proprio i non vedenti

Provate a fare i “non vedenti” anche per un’ora sola e quando tornerete a vedere la luce del giorno ringrazierete Dio (o chi per lui, a seconda delle vostre sensibilità) per avere il dono della vista. Sembra banale: così non è. Lo ha sperimentato un gruppo di 40 persone che ha partecipato al pranzo “al buio” promosso da D&D danza e Unione italiana ciechi e ipovedenti, iniziativa che è stata proposta ieri per la prima volta nel Friuli occidentale.

I primi protagonisti del banchetto ospitato al Planet fun di Fiume Veneto. Nicola è caposala. Ha una quarantina d’anni, è di origini siciliane, vive a Gorizia, ha una bambina. È docente di informatica, materia che lo appassiona tanto quanto giurisprudenza, in cui è laureato e ora sta conseguendo l’abilitazione all’avvocatura. È cieco. Normalmente gira col bastone, che mette in tasca nei percorsi che conosce. Utilizza i mezzi pubblici e il treno: «Le Ferrovie offrono un servizio di assistenza e personale specializzato ti porta al treno giusto».

Ha rinunciato al cane in quanto «sarebbe sacrificato: non potrei tenerlo “impegnato” dalle 7, quando esco di casa, alle 20, quando rientro. Sarebbe ingiusto nei suoi confronti. Mi affido soprattutto a udito e impressioni». Sarà lui a servire le portate con i suoi ex allievi Domenico, cieco, e Rocco, ipovedente, trentenni d’età. «Vedo ombre, ma solo da una parte, a causa di una malattia che mi ha colpito l’anno scorso.

«La mia principale difficoltà? Farà sorridere, ma proprio a causa di questo barlume di ombra che riesco a percepire ancora da un solo occhio, quando al bar guardo qualcuno per cercare di capire chi sia, la domanda è quasi sempre la stessa: cos’ha da guardarmi?».

Seconda protagonista è Daniela Floriduz, insegnante di storia e filosofia, non vedente, in cattedra da 15 anni, un mito per gli studenti del liceo Leopardi Majorana, presidente provinciale dell’Unione italiana ciechi e ipovedenti. Dotata di pc col sintetizzatore vocale e tavoletta Braille in borsa, ha avuto un grande maestro di vita e di scuola: Francesco Andreoli, già preside del liceo Grigoletti. Da bambina fu, nel 1978, la prima studentessa non vedente integrata in una classe di normodotati.

Terzo protagonista del pranzo al buio è il maestro di ballo Daniele Parisi. Volto noto di Canale Italia, è il giovane maestro di ballo richiesto dappertutto, che sulle piste ha “movimentato” anche centinaia di soci e no dell’Associazione diabetici e ha edito il cd “Daniele & friends”. Quarti, ma non per questo ultimi protagonisti del tutto, i commensali. Una quarantina di persone che hanno partecipato alla singolare esperienza devolvendo una donazione all’Uici, operante a Pordenone dal 1969, in Italia dal 1920.

Raduno, dunque, nella hall, e istruzioni per il pranzo durante l’aperitivo, servito in un salone semi-buio, per cominciare ad adattare l’occhio. «Un po’ di curiosità ed ansia ci stanno», rassicura i nervosi commensali la docente di filosofia e storia. «Nulla è insuperabile – una “lezione” di vita da brividi –, col buio si può vivere. Ci battiamo per dare vita morale e integrata alle persone affette da cecità».

Il pranzo al buio si avvicina, obiettivo: creare la consapevolezza di come si può stare al buio. Perché il cieco non è un extraterrestre, ma una persona che nel buio ci vive sempre. È arrivata l’ora di aprire occhi e mente su un certo mondo. Niente borsette appese sulle sedie, cellulari e orologi elettronici spenti. A gruppi di dieci, i camerieri (ciechi) portano in sala e fanno accomodare gli ospiti.

Quella sala che hanno percorso, a scopo cognitivo, una volta sola, concentrandosi sulla posizione di sedie – saranno il loro riferimento fondamentale –, tavoli e ostacoli. La curiosità fa tacere le chiacchiere. Al buio, il cameriere fa accomodare, dalla voce si “scopre” chi sta attorno. Con le mani, delicatamente (per evitare di fare danni e “colpire” i vicini), si cercano gli attrezzi del mestiere che si chiama pranzo: piatto, tovagliolo, posate, bicchieri, bottiglie (quella col fiocco è dell’acqua gasata), pane. C’è tutto ciò che serve.

Sperare di “focalizzare” qualcuno, attorno. Macché, solo voci. E si chiacchiera. Che fortuna, però, poter mangiare con la bocca aperta, stiracchiarsi senza che nessuno possa dire che sei un maleducato, abbassare le barriere inibitorie.

Silenzio in sala, i camerieri servono il primo. È pasta all’amatriciana, lo si evince dal profumo. Poi, però, “catturare” i fusilli (al buio) diventa un’impresa. La forchetta si trasforma in cucchiaio, dopo un po’ di tentativi a vuoto. Il “bello” è capire quando sono finiti: sfruttando il buio, è il dito che fa la sua parte, del resto siamo principianti. I camerieri ritirano il piatto.

Esame superato? Altro che, la seconda portata è ben più complicata. Il menù recita: scaloppina con funghi, spinaci e purè. Tre in uno, stavolta si utilizza pure il coltello. Fate una prova, se riuscite a mettere insieme le tre cose e a capire soprattutto quando sono finite, scaloppina tagliata compresa, nel piatto che al buio sembra un oceano dove ogni “scoglio” se mal preso potrebbe schizzare sulla camicia del vicino. Il dessert, tiramisù o strudel, diventa una “passeggiata”.

Perché la luce non è ricomparsa, ma sono state accese alcune candele per dare la possibilità ai commensali di osservare come operano i camerieri. Il tatto è la loro via maestra. A tavola, intanto, la socializzazione “al buio” è una macchina che gira a pieno regime.

Caffè e torna la luce. Così si possono contare le macchie sulla tovaglia o sulla camicia. Quanto difficile, pranzare al buio. «Abbattete le barriere mentali, un cieco può fare quasi tutto», esortano. Se magari la “società” lasciasse loro qualche semaforo per un attraversamento in sicurezza e un posto auto libero, non sarebbe poi così male. «Ora sapete cosa significa avvicinarsi al nostro mondo».

Fine del pranzo al buio. «E luce fu, ma non per tutti. Ma va bene così», dice il cameriere, centralinista nella vita. Per lui e per tanti altri, quella luce non c’è mai stata, non ci sarà mai più. Ma che lezione di vita che ci avete dato!

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