Pittrice e musicista ecco il grande fascino della Mitteleuropa

A quasi 103 anni compone ancora al pianoforte e dipinge Un’esistenza straordinaria, segnata da moltissimi viaggi

di MARIO BLASONI

Nel 1999 le hanno rinnovato la patente e ha comperato «la macchina nuova». Ha guidato fino al 2002 poi ha smesso «per problemi di udito». Da un anno non suona più il violino, ma continua a dipingere i suoi famosi acquerelli (di recente ha tenuto una bella mostra, che ha presentato personalmente, alla galleria “La Bottega”). Parliamo dell’artista goriziana Cecilia Seghizzi, la “signora della musica” arrivata - con eccezionale grinta velata d’ironia, tanta determinazione e invidiabile leggerezza - alle soglie dei 103 anni (li compirà in settembre). Figlia di Augusto Cesare Seghizzi (1872-1933), musicista tra i più importanti della nostra regione e fondatore, nel 1920, della corale che porta il suo nome, in una intervista del 1998 Cecilia è stata definita un monumento alla gorizianità. Ma lei ha spiegato di essere, sì, espressione della città isontina, ma «con tante influenze: di mio padre d’origine istriana, dell’ambiente friulano, di aver vissuto e studiato a Milano e di aver molto viaggiato». Sia lei che il genitore, fra tanti riconoscimenti, ne hanno avuti due significativi: il premio Epifania di Tarcento e il San Rocco, che è un po’ l’omologo della friulanità goriziana.

Nella sua casa di via Pascoli, tranquillo quartiere non lontano dal Corso Italia, la musicista-pittrice è “sommersa” dai quadri, ma anche da spartiti, libri e pubblicazioni che ripercorrono, tra lei e il padre, più di un secolo di eventi culturali. Il violino è riposto, ma troneggia il pianoforte che Cecilia usa ancora quando l’ispirazione la porta a comporre. Vive da sola, la badante viene due-tre ore al giorno («soprattutto per cucinare, dato che mi stanco a stare in piedi»). Si muove rapidamente con un mezzo girello ballerino, per brevi passeggiate, ma per spostamenti più impegnativi vengono a prenderla le amiche che guidano. L’altro problema, quello dell’udito, lo ha risolto con un apparecchietto acustico che le consente anche di conversare liberamente al telefono. Ma ha pure dimestichezza con il computer: riceve molte e-mail alle quali risponde puntualmente. Se la vita di una ultracentenaria è questa - c’è da chiedersi - chi non metterebbe... la firma? Comunque non è che Cecilia Seghizzi non pensi all’aldilà, seppure con la sua tipica ironia. «Mi dispiacerà andare in Paradiso - ha detto, nella citata intervista, a Laura De Simone - perchè non vedrò quello che succederà dopo nel mondo della scienza, della cultura, delle macchine, delle arti... Tutto cambia in fretta, peccato non esserci. Ho ancora tante idee in mente, anche se mi manca la forza di un tempo».

La storia dei Seghizzi comincia in Istria, a Buje, dove nel 1872 nasce Augusto Cesare, che studia pianoforte col padre a Trieste, si diploma e dal 1890 si stabilisce a Gorizia dove è maestro elementare, insegnante di musica e direttore di cori, oltre che Kappelmeister in duomo. Sposato con Palmira Pizzioli, hanno due figli: Natale (1905-1975), impiegato, ma anche lui pittore e violinista, e Cecilia. Siamo, naturalmente, “sotto l’Austria” e la signora Seghizzi ricorda che il padre, chiamato alle armi, evita di andare in guerra contro l’Italia, ma finisce confinato in un cosiddetto “campo profughi”, a Wagna di Leibniz, dove riesce a formare un coro misto (più di cento giovani) che si esibisce, con grande successo, anche a Vienna e a Graz. Durante il conflitto 1915-’18 Gorizia viene bombardata, una granata colpisce il campanile del duomo danneggiando anche la loro casa sottostante («eravamo in cantina, mi andava la polvere negli occhi...»). Cecilia, allora, ha solo 7 anni. Elementari, istituto magistrale e scuola di musica a Gorizia, poi viene ammessa al conservatorio Verdi di Milano. Dove si laurea brillantemente in violino e in direzione corale, avviandosi alla carriera concertistica. A Milano conosce il pianista di origine abruzzese Luigi Campolieti, col quale farà un duo («sul palcoscenico e nella vita», precisa). Si sposeranno, ma molti anni dopo perchè lui va a Parigi per perfezionarsi e lei deve tornare a casa, dal padre malato. («Quel periodo ci siamo scritti molto, ma rivisti ogni tanto, di sfuggita...»). Nel 1929 Cecilia rientra, dunque, a Gorizia dove si fa conoscere come solista, accompagnata prima dal padre e poi dal maestro Costantinides. Si diploma anche in composizione, a Trieste, e si dedica alle villotte friulane e ai pezzi per coro in genere, mettendo in musica versi del poeta gradese Biagio Marin, di Celso Macor e del grande Ungaretti. Nei suoi studi l’hanno seguita, tra gli altri, il direttore dell’istituto musicale udinese Mario Montico e i critici Viozzi, Tavano e Arbo. A Milano ha conosciuto Gianandrea Gavazzeni («elegante, un po’ sostenuto: lo guardavamo da lontano, con una certa soggezione») e Ildebrando Pizzetti, in Friuli anche Pezzè e Garzoni.

Augusto Cesare muore nel 1933 e lei assume per alcuni anni la direzione della corale Seghizzi. Nel 1953 fonda il Polifonico goriziano, che si afferma anche fuori regione. Fra il 1960 e il ’65 - racconta l’artista - «ho dato la preferenza alla pittura», continuando a insegnare musica alle medie («per tre anni anche alla Valussi di Udine»). Attorno a lei cresce il cenacolo di amiche, colleghe, alunne e comincia la stagione dei viaggi estivi: da Capo Nord al Medio Oriente, dal Marocco alla Russia. E poi Cina, Giappone, India. Andava spesso in montagna («ho tanto sciato!») e al mare. Va ancora a Grado, dove ha un appartamento. Ma il suo maggiore impegno è la pittura. Dove è passata dal figurativo all’informale, dagli acquerelli all’olio, dimostrando grande creatività unita a capacità di rinnovamento. I temi restano la natura e i paesaggi, anche se vi fa capolino la musica, ispiratrice costante, con le note e gli archi ricorrenti. Ma perché la pittura? «Per il piacere - ha spiegato alla “Bottega” - di giocare con i colori».

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