Ori e amuleti nella collezione Perusini
La mostra sarà aperta da venerdì 27 al 30 novembre a palazzo Giacomelli

Gaetano Perusini, storico ed etnologo, studioso delle tradizioni friulane, docente universitario e proprietario dell’azienda agricola Rocca Bernarda, nato nel 1910, morì in circostanze tragiche a Trieste nel giugno 1977 lasciando in eredità al Sovrano Militare Ordine di Malta una collezione straordinaria fra ori, oggetti sacri, amuleti, medaglie, gioielli, che raccontano l’arte tradizionale, popolare e sacra e con essa le regole sociali del vivere di fine Settecento, Ottocento e Novecento. Meglio: documentano quei riti di passaggio che circondano e intersecano l’intero anello di un’esistenza. Testimoniano superstizioni, stravaganze, angoli bui e abitudini buone, tutti illustrati con una moltitudine di carte d’archivio e con rigido rigore scientifico da un accademico di tradizioni popolari, laureato in scienze agrarie.
La prima cosa da dire è che se non ci fosse stato Perusini, attivo in Italia e all’estero dalla fine degli anni Trenta agli anni Settanta, nel Novecento, il racconto storico legato a questi oggetti, oltre che fisicamente la loro presenza, non ci sarebbe dato. La seconda è questa: da venerdì 27 giugno al 30 novembre prossimo, nella
Ori e rituali. I preziosi della collezione Perusini
, di 5800 oggetti inventariati, grazie anche al sapiente lavoro svolto nel tempo dagli studiosi Novella Cantarutti e Gian Paolo Gri, allievi e collaboratori in molte campagne di ricerca del professore, ben 600 ornamenti saranno visibili al pubblico. E anche qui c’è una prima volta. Tutti questi gioielli stanno normalmente al buio nel caveau della Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone e sono usciti solo nel 1989, così alla chetichella, nei locali della banca, ma erano pochi, per una esposizione. E a Villa Manin nel ‘92, nell’ambito della mostra
Ori e tesori d’Europa,
c’erano, ma non da soli.
Così l’evento del prossimo 27 giugno si propone come fatto esclusivo e collegato alla parziale apertura di palazzo Giacomelli, in via Grazzano a Udine, nuova sede del “Museo etnografico del Friuli”, che sarà inaugurato definitivamente, si spera, nel 2009. L’eredità è quella del Museo friulano delle arti e tradizioni popolari di via Viola, nel palazzo dei conti di Maniago. Un ricordo per molti di noi. Una mancanza, poi. Giuseppe Bergamini, allora direttore dei Civici Musei, nel ‘87, durante la cerimonia per il decennale dalla scomparsa di Perusini, così affermava: «Egli fu tra coloro che diedero un contributo decisivo alla nascita del Museo nel ’62, fornendo – da studioso specifico della materia - indicazioni metodologiche e mettendo a disposizione gran parte del suo materiale». Ecco perché Palazzo Giacomelli, dimora di molte famiglie borghesi udinesi, inaugura adesso il nuovo corso con un’appendice nel piano nobile a lui dedicata.
«Il professor Perusini sentiva il bisogno e l’urgenza di documentare un mondo in via di sparizione», dice Tiziana Ribezzi, conservatrice dei Civici Musei cittadini, che di questo avvenimento e del catalogo ne è la curatrice. Nell’opera compaiono interventi di Gian Paolo Gri, Enrico Lucchese, Gabriella Bucco e Silvana Altamore. C’è anche Novella Cantarutti in un’intervista, lei che è erede e testimone del lavoro di Lea D’Orlandi, erede a sua volta del Marinelli come Perusini lo era del Leicht. È con Lea, etnologa, pittrice, scenografa, studiosa delle tradizioni, che Perusini inizia il suo viaggio itinerante in Friuli Venezia Giulia alla ricerca delle fonti documentarie.
È con Lea che scrive
Costumi di Poffabro
nel 1939 su
Ce fastu?
, rivista della Filologica friulana di cui fu direttore dal ’44 al ’77. È Lea che gli regala il numero uno della collezione: tre piccole perle vitree, del colore del latte, che le donne udinesi portavano sul seno per favorire l’allattamento.
Se parlassimo con Umberto Eco, questo incipit un po’ stravagante sembrerebbe una “favola camp”. Come le origini di Gaetano, proprietario di Rocca Bernarda, figlio di Giuseppina Antonini (su tutto, la memoria del suo
Mangiare e bere friulano
, edito nel ‘70 con la prefazione di Giovanni Comisso) e di Giacomo Perusini, agronomo a cui si deve nel 1906 il primo studio ampelografico sul Picolit, e la riuscita continuazione con quello del conte Fabio Asquini, e tutto ciò grazie a una bottiglia di Picolit, da Perusini conservata dal secolo dei Lumi.
Se grazie a Giacomo si è salvato il nettare d’oro, più buono di un Sauternes, tagliando l’oblio dell’Ottocento, grazie a Gaetano, che ha continuato ad amare Picolit e Rocca Bernarda, si è salvato un Friuli popolare e autentico. E non solo: anche la Venezia Giulia, il Veneto, la Valsesia, la Dalmazia e la Sicilia negli oggetti documentati raccontano «un dialogo tra significato e contesto d’uso», come con orgoglio ci spiega pazientemente Tiziana Ribezzi, che aggiunge: «Ci interessa, nel percorso museale narrato con una scelta equilibrata di materiali della collezione, testimoniare la valenza storica di Perusini. Dall’abbigliamento era passato al gioiello, dai gioielli agli amuleti. E a ciò si aggiunge la raccolta continua dei documenti». Con l’aiuto degli orafi amici, tipo Eliseo Zoratti, aggiungiamo noi. E con l’attenzione della sua amica etnologa Annabella Rossi, che a Roma nel ’64, organizzando un’esposizione dedicata alla Oreficeria Popolare italiana, è da ritenersi responsabile della spinta a queste ricerche. In quella mostra mancavano totalmente i gioielli friulani e ciò al burbero Gaetano non era piaciuto.
L’antropologo Gri ci invita in mondi perduti quando narra dei suoi viaggi negli anni Settanta, allo scopo di “andar per oggetti” con il proprio maestro. Perusini era internazionale. Gli aveva subito presentato i bravi colleghi etnologi di Lubiana. Si preoccupava anche di studiare il costume romeno, per onor di verità storica. Gri spiega: «Bisogna sapere che i friulani sono anche emigrati in Romania».
Quanto lontana sia questa realtà oggi non occorre sottolinearlo. «Perusini ha collegato la storia alla etnografia - dice Gri - con un senso delle fonti molto forte. È lui che mi ha insegnato l’interesse comparativo». Noi lo chiameremmo: punto di vista trasversale.
Elena Commessatti
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