Nordest: N come No

Nordest: N come No. Con la sola e singolare eccezione dell’Alto Adige (dove non solo vince il sì, ma con la quota più alta d’Italia, 64 per cento), la parte orientale del Paese boccia la riforma di Renzi, e lo fa con un tasso di partecipazione elevatissimo.
A cominciare dal Veneto, record nazionale con il 76 per cento (e al suo interno Padova provincia più mobilitata d’Italia, con il 79), qualche decimale sopra l’Emilia Romagna. Ma anche il Friuli-Venezia Giulia viaggia su livelli elevati, con il 73: un po’ sotto Lombardia e Toscana (74), e alla pari di Umbria e Marche. Insomma, nel complesso, la risposta nordestina in termini di presenza ai seggi si dimostra all’altezza delle tradizionali zone rosse.
Ma il dato più significativo viene dal risultato: che presenta un inequivocabile significato. Veneti e friulani hanno opposto un no pressoché analogo: 62 per cento i primi, 61 i secondi; gli indici più elevati di tutte le regioni del nord, Lombardia compresa. Un esito scontato in un Veneto dominato dal centrodestra e con una robusta presenza grillina; molto meno in un Friuli-Venezia Giulia non solo governato dal centrosinistra, ma anche con una presidente (Debora Serracchiani) che nel Pd è vice-Renzi. Nella sua Udine il no ha riscosso il 61 per cento, dietro alla sola Trieste dove si è attestato al 63.
Quanto al Veneto, la roccaforte leghista di Treviso si fa scavalcare da Vicenza sia pure per pochi decimali (63,1 contro 62,7). Può consolarsi con Refrontolo, il paese di Luca Zaia, dove il no supera il 70, ma deve comunque stare dietro San Zenone degli Ezzelini, dove arriva oltre il 71. Il no di minore intensità, ma pur sempre sopra il 60 per cento, è quello di Rovigo (60,3). Qualche motivo di interesse lo presenta l’andamento nei capoluoghi, dove pressoché dovunque la riforma mostra una bocciatura sempre maggioritaria, ma di dimensioni inferiori rispetto al dato dell’intera provincia: come ad esempio a Udine (55 contro 61), Treviso (55 contro 63), Padova (53 contro 62), Venezia (59 contro 62).
Al di là della lettura statistica, l’esito referendario suggerisce uno sguardo sulle ricadute locali di medio periodo, in rapporto ad alcune significative scadenze elettorali del prossimo anno. La principale è con tutta evidenza quella delle regionali friulane: il voto di domenica propone in tal senso una conferma di quanto accaduto nei mesi scorsi prima a Trieste e Pordenone, poi a Monfalcone, con la secca sconfitta del centrosinistra.
Pur trattandosi di una Regione tra le più piccole d’Italia, proprio la presenza e il ruolo della Serracchiani segnalano un test dotato di una forte ricaduta simbolica nazionale; e la presidente è ad alto rischio, anche considerando che in Friuli-Venezia Giulia il clima nel centrodestra è molto meno burrascoso che altrove.
Quanto al Veneto, gli appuntamenti di rilievo sono soprattutto tre, per i capoluoghi di Verona, Padova e Belluno. Nella città scaligera, l’endorsement del sindaco Flavio Tosi per il sì ha contenuto la sconfitta, attestandosi al 45 per cento, sei punti sopra la media provinciale: segno che il suo consenso rimane elevato. A Padova, lo scarto tra sì e no è inferiore ai 6 punti, mentre nella media provinciale è di quasi 24. A Belluno, lo scarto cittadino è di 11 punti, metà di quello provinciale.
Tre partite comunque difficili per i due poli tradizionali: da un lato le divisioni nel centrodestra, oltretutto con una Forza Italia evanescente; dall’altro la cronica debolezza di un Pd veneto tra l’altro commissariato, e che è rimasto con due soli capoluoghi, Vicenza e Belluno. Se perdesse pure quest’ultimo, e a Padova non riuscisse ad approfittare dell’ammaina-Bitonci leghista, sarebbe allo sfascio. E come insegna il proverbio, tra i due litiganti alla fine a godere sarebbero i grillini. Senza nemmeno doversela sudare.
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto