«Non li ho uccisi io I messaggi molesti a Teresa decisi in tre»

«Io adesso sto qui davanti a tutti, ma eravamo in tre a pensare e scrivere quelle cose». “Quelle cose” sono i messaggi molesti inviati dal profilo Facebook anonimo a Teresa Costanza, fidanzata di Trifone Ragone. A sganciare la rivelazione bomba in Corte d’assise, a Udine, lo stesso imputato del duplice omicidio, il 27enne di Somma Vesuviana Giosuè Ruotolo, che chiama in causa per la creazione del profilo anche gli altri due ex coinquilini di Trifone, Daniele Renna e Sergio Romano.
Nell’esame fiume condotto dal pm Pier Umberto Vallerin, durato più di otto ore e non ancora concluso, Ruotolo racconta per filo e per segno la sua versione sulla genesi di quei messaggi, che per l’accusa rappresentano pure l’innesco dell’agguato mortale ai due fidanzati, il 17 marzo 2015. Nel racconto di Ruotolo, invece, non è così: Trifone non avrebbe mai scoperto gli autori dei messaggi, non ci sarebbe stata alcuna lite fra di loro, né alcun proposito di vendicare il pestaggio o di temere per la carriera nella Guardia di finanza in caso di denuncia.
Giura al pm: «Io le sto dicendo quello che è successo, figuratevi se adesso vi dico delle bugie, per avervi omesso una cosa sono finito in questa situazione». Cerca con gli occhi gli avvocati Roberto Rigoni Stern e Giuseppe Esposito, con i quali ha vissuto fianco a fianco tutte le udienze, ora lontani. Sollevato, quando nota che Esposito sta annuendo alle sue parole. A volte in una muta richiesta di aiuto quando si sente messo alle corde.
«Praticamente questa messaggistica anonimo anonimo l’abbiamo creata io, Renna e Romano» esordisce, specificando però che la paternità dell’idea non è sua. Lui è stato l’esecutore materiale, perché aveva la disponibilità del wi fi in caserma, ma i contenuti e anche molti termini gli venivano suggeriti dagli altri due coinquilini. È stato Giosuè a inviare i messaggi con il suo telefonino, anche se i tre si confrontavano sempre e commentavano le risposte di Teresa. L’imputato ammette che la molla è stata la volontà di fare «un dispetto a Trifone per tutti i fastidi che ci aveva fatto in casa, mancanze e ritardi nei pagamenti, donne che si portava nell’appartamento». Hanno scelto di fingersi Annalisa Martino perché era «l’unica ex di Trifone che conoscevamo», ma non avevano, secondo Ruotolo, intenzione di separare i due fidanzati, il loro voleva essere solo un avvertimento.
«E allora perché insultare Teresa con epiteti volgari?» la domanda del pm Vallerin. «Il contenuto – riporta l’imputato – poi si è evoluto in questa maniera, ma all’epoca noi fingevamo di essere un’altra persona e io avevo tanta confusione in testa, io scrivevo i termini che mi dicevano i coinquilini. Venivano da me in laboratorio, in caserma, e mi dicevano “mandaci così, mandaci colà”».
In un primo momento, Teresa ha creduto alla misteriosa Annalisa. Poi, però, ne ha parlato con Trifone e, paradossalmente, la loro relazione si è rinsaldata. «Abbiamo commentato – riferisce Ruotolo – che il nostro intervento alla fine li ha aiutati». A dirlo sono proprio i due fidanzati in una risposta inviata ad Anonimo, sottolineando che le sue bugie li hanno resi ancora più uniti.
Ma poi, secondo Ruotolo, «la storia è finita lì», dopo quella estate, senza alcuna conseguenza. Sette messaggi in tutto, fra il 26 giugno e l’11 luglio 2014. «E allora come mai – tuona il pm – Renna e Romano ci hanno detto che Trifone aveva dei sospetti su di lei come autore dei messaggi e che siete venuti alle mani?».
«La motivazione – si infiamma sull’onda dello sdegno Giosuè, rosso in volto – per la quale abbiano detto questa assurdità la dovete chiedere a loro. Io stavo lì ad ascoltarli in aula e mi sono meravigliato: è la cosa più stana che abbia mai sentito. In caserma anche se uno si ritrova un succhiotto dietro l’orecchio si viene a sapere, qualsiasi cosa. Chiedetelo in giro: io non ho mai litigato con Trifone, non sono mai venuto alle mani con nessuno». Quanto all’epiteto di «sciacquetta», Ruotolo precisa di non averlo mai proferito nei confronti di Teresa. E il soprannome “principessa” affibbiato alla fidanzata di Trifone? «Mai sentito».
L’imputato dipinge una quotidianità serena entro le mura domestiche di via Colombo fra i quattro coinquilini: «Rapporti normali, a parte le normali discussioni legate alla convivenza». Eppure, osserva il pm Vallerin, i loro contatti via telefono e messaggi si diradano e i coinquilini acquistano e installano una webcam all’ingresso del loro appartamento in via Colombo per spiare eventuali intrusi, perché Trifone non ha ancora restituito il suo mazzo di chiavi. Alludono all’ex coinquilino dicendo «Ora è finito il tempo di quella m...a». «Un amico si chiama così?», obietta il pm.
In una nota cancellata del cellulare di Ruotolo i detective dell’Arma rinvengono un indirizzo: via Chioggia 8 o 9. Al 5 hanno traslocato i due fidanzati. Ruotolo dice di non conoscere quell’indirizzo e di non esserci mai stato.
Un intero capitolo dell’esame è dedicato ai rapporti fra Mariarosaria Patrone e Giosuè Ruotolo. «Siete tuttora fidanzati?», chiede Vallerin. «Ci hanno separati di fatto, non ci possiamo sentire, non la vedo da un anno», constata Giosuè. L’imputato ricorda la gelosia della sua fidanzata. «Quando sono salito a Pordenone, nel 2012, è caduta in depressione», rievoca. Già prima del novembre 2014, secondo Ruotolo, e anche dopo il 17 marzo del 2015, giorno del delitto, anche se con minore frequenza, Mariarosaria Patrone invia al fidanzato messaggi deliranti, in cui simula il proprio decesso, una finta aggressione da parte di una soldatessa di cui Giosuè si era invaghito, un aborto e altri scenari catastrofici. Ruotolo sottolinea di aver saputo che si trattava soltanto di farneticazioni, fatto che gli era stato confermato dalla stessa madre di Mariarosaria, ma di non aver rivelato ai suoi superiori in caserma che fossero finti malesseri. «Per una forma di rispetto nei confronti di Mariarosaria». Agli ufficiali della caserma Ruotolo racconta, invece, che la sua ragazza è in coma e che per questa ragione non può partecipare a “Strade sicure” a Milano, («Ho rinunciato a una cosa che mi avrebbe avvantaggiato per starle vicino, perché aveva bisogno») e che ha bisogno di una licenza.
Quando stava insieme a Mariarosaria, però, Giosuè non affrontava mai alcun discorso inerente i deliri. Faceva finta di nulla, «per assecondarla e farla stare tranquilla». È per questo, asserisce Ruotolo, che il 17 marzo 2015 nella telefonata notturna di un’ora alla sua fidanzata non ha fatto il minimo accenno al delitto avvenuto poco prima al palasport. Non parla con nessuno della sua presenza sulla scena del crimine. «Perché non avevo visto nulla, quando sono stato lì nel parcheggio non c’era niente, non ho visto nessuno di tutti i testimoni che sono venuti qui a parlare, evidentemente il delitto è stato commesso prima. Non potevo dare alcun contributo alle indagini».
Lo tace persino agli inquirenti, perché, dice, teme che possa compromettere il suo ingresso nella Guardia di finanza. «Sono cose atroci, mi sono sempre tenuto estraneo da queste cose, io ho paura di queste vicende», osserva l’imputato. Giosuè ripercorre passo dopo passo la sera del delitto, sollecitato dal pm Vallerin, ricalcando le dichiarazioni rese in interrogatorio. Con qualche dettaglio inedito: quando esce di casa non si imbatte né scambia qualche parola con nessuno dei due coinquilini, che si trovano nelle loro stanze e anche al ritorno non li incrocia. Non si cambia dopo il delitto: indossa la stessa tuta, all’andata e al ritorno. E anche in questo la sua deposizione diverge da quella di Renna e Romano. Va al parcheggio del palasport, ascolta qualche brano di musica house, si allontana lungo via Interna, va al parco di San Valentino per correre, sente freddo, ritorna a casa. Cena, gioca la terza e ultima partita a League of legends, telefona per un’ora alla fidanzata. Prima Renna gli riferisce di «due siciliani assassinati nel parcheggio del palasport», poi più tardi Romano arriva con la notizia: «C’è un’auto simile a quella di Trifone, i nostri commilitoni sono già tutti lì in via Interna. Noi non ci abbiamo pensato due volte, siamo andati subito là». Ma nemmeno allora Giosuè rivela agli altri che lui, al parcheggio, era stato poche ore prima. «I commilitoni dicevano che grazie alle telecamere avrebbero preso subito l’assassino». Ma erano solo gusci vuoti.
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