Nives Meroi: «Quel richiamo del bosco diventato casa mia»

L’alpinista: tutte le mattine studio di che umore è la montagna, dobbiamo preservarla senza rompere gli equilibri

«Osservo ogni mattina la foresta millenaria dalla porta finestra della cucina di casa, mentre faccio colazione da sola. Mi alzo presto, prima di Romano. È un bel momento, tutto mio, di iniziare la giornata: studio di che umore è la montagna. È il primo passo pacifico verso un nuovo giorno».

L’alpinista Nives Meroi ha la fortuna di vivere a pochi passi dalle pareti del monte Mangart, baluardo di confine tra Italia e Slovenia, grande cupolone di calcare che si staglia sopra i laghi di Fusine, a guardia della grande distesa di boschi a suoi piedi, che lei conosce palmo a palmo.

«Sono più di trent’anni che vivo qui, posso uscire di casa senza macchina e muovermi con un breve tragitto verso il bosco, iniziando un viaggio ricco di sensazioni. Mi basta attraversare il prato, uno stagno ed ecco che sono immersa tra gli alberi».

La foresta accompagna la quotidianità di Nives, è punto di partenza e anche luogo di ritorno da lunghi viaggi e spedizioni, è casa. Fa da valvola di sfogo, percorso di meditazione, decantazione e amplificazione dell’anima, medicina.

«Il semplice addentrarsi senza obiettivi, non sapendo che strada prenderò quel giorno, mi fa sentire parte di quell’enorme organismo vivente che è la foresta. Del resto è noto il potere terapeutico dei boschi».

E non ti fa paura? Una volta hai avuto anche un incontro ravvicinato con un orso, se ben ricordo...

«Era un’orsa. E mi ero ritrovata a passare, senza saperlo, tra lei e il suo piccolo. L’ho vista, mi sono sentita gelare. Memore degli insegnamenti di Romano mi sono allontanata lentamente. Poi ho preso il volo senza più girarmi fino a casa. Per un po’ di tempo mi sono portata dietro il timore di incontrarla di nuovo. Però oggi penso che la bellezza di questa foresta sia anche la possibilità di fare incontri così».

Cosa vuole dire?

«Che se gli orsi, così come il lupo, la lince, il castoro hanno scelto nuovamente i nostri boschi come habitat, significa che è un ambiente integro, puro, selvaggio. Bisogna preservarlo, senza romperne gli equilibri».

Da chi è minacciato?

«Le minacce sono di vario tipo. Ci sono quelle naturali come le tempeste scaturite dai cambiamenti climatici o come il bostrico, insetto parassitario che attacca gli abeti anche qui da noi».

E tra le cause non naturali ci mettiamo l’uomo?

«Sì. Soprattutto la mancanza di cultura e cura verso la montagna. Nella nostra società la responsabilità viene delegata ai cartelli coi divieti: “Non gettare rifiuti a terra”. Non ci dovrebbe essere bisogno di scriverlo. Va trasmessa ai giovani più sensibilità».

Dopo il Covid-19 ci sarà un aumento nella frequentazione delle aree alpine...

«Bisogna far capire che la montagna non è un parco giochi e che non è velocità: se non vai a cento all’ora te la godi di più. Tra i monti non si deve andare in cerca di tutto quello che si ha in città, si va per scoprire altro».

Ci vorrebbe una politica di regolamentazione degli accessi in montagna?

«Sì, occorre cercare un modo più equilibrato per permettere alle persone di raggiungere i luoghi, ma senza cannibalizzarli. A volte a Fusine non riesci a vedere il lago perché ci sono tutti i camper parcheggiati davanti. Bisogna aver il coraggio di fare proposte di turismo meno commerciale che al contempo lasci qualcosa a noi montanari e che non porti all’inquinamento o al consumo forsennato di suolo, risorse, silenzio».

E dei grandi concerti in montagna cosa ne pensa? «Da noi i posti sono sempre stati lasciati puliti e l’impatto acustico per gli animali è minimo, in quanto ridimensionato a un giorno. Sono peggio tre mesi di macchine avanti e indietro in una valle». –

© RIPRODUZIONE RISERVATA
 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto