Mucca pazza, aviaria, Sars, suina, Covid-19: ecco perché i virus sono collegati allo sfruttamento degli animali

È il momento di cambiare il nostro atteggiamento predatorio. La prima occasione sarà la conferenza mondiale dell’Onu a Pechino 

La pandemia da coronavirus in corso in queste settimane in Italia e nel mondo ha sollevato dibattiti e lanciato sfide, dagli studi sulla diffusione del virus ai metodi di contenimento, dalla gestione dell’emergenza sanitaria fino alle misure di sostegno all’economia.

È tuttavia mancata una discussione su come è nato il contagio e, allargando il tema, sul rapporto tra l’uomo e gli altri animali, un rapporto spesso malato e distorto, in quanto all’origine di molte delle epidemie degli ultimi decenni e concausa della crisi climatica e ambientale che stiamo vivendo.


L’origine dell’epidemia di Covid-19, simbolo per eccellenza della globalizzazione Made in China, è stata con alta probabilità individuata nei mercati di animali vivi della città cinese di Wuhan, dove si sarebbe verificato un salto del virus a una specie diversa o spillover dal pipistrello all’uomo.

Lo spillover è un evento pericoloso, in particolare dal pipistrello, che forte di un sistema immunitario straordinariamente efficiente, riesce a contrastare gli effetti nefasti del virus, il quale invece quando arriva nell’organismo umano non trova altrettanti meccanismi di difesa.

Questo tipo di epidemie, spesso generate da un rapporto alterato con gli animali e con il consumo della loro carne, non sono un fenomeno nuovo. Nel 1993 ci fu il morbo della mucca pazza che fu trasmesso all’uomo da bovini alimentati con farine animali, molte di queste prodotte con scarti dell’industria del pesce.

Si trattò di un virus con esito fatale per le persone che contrassero la malattia, frutto di un rapporto sbagliato con animali, le vacche, che avrebbero dovuto essere alimentate con foraggio.

Seguì nel 2003 l’epidemia da Sars o sindrome respiratoria acuta, originata anch’essa da uno spillover da pipistrello a uomo, seguita nello stesso anno da un’epidemia di influenza aviaria diffusa nei mercati asiatici di polli.

Nel 2009 ci fu l’influenza suina sviluppata in America da un virus trasmesso all’uomo dai maiali, cresciuti in allevamenti intensivi. Durante queste epidemie e pandemie, milioni di animali furono ammassati, spesso vivi, bruciati o gettati in fosse comuni, per frenare la diffusione del virus. Un prezzo ritenuto inevitabile per contenere il “problema”.

Credo che il problema non nasca dagli animali ma da come la specie umana si rapporta a essi.

Ovunque guardiamo, l’uomo contemporaneo ha sviluppato un rapporto consumistico-predatorio con le altre specie animali, in particolari i mammiferi. A eccezione di pochi animali domestici con cui intratteniamo un rapporto di cura quasi antropomorfa e di altri pochi animali simbolo della biodiversità nelle aree protette, ovunque il rapporto con gli animali è determinato dallo sfruttamento più o meno intensivo.

Sfruttiamo gli animali per intrattenimento nei circhi e negli zoo o nella sua versione più accettabile, le oasi faunistiche; sfruttiamo gli animali negli allevamenti intensivi, per testare nuove medicine con la vivisezione, per creare oggetti inutili di avorio causa del massacro degli elefanti, per divertimento con la piaga della caccia abusiva, il bracconaggio.

Le filiere della carne sono diventate filiere di produzione industriale, dove l’animale costretto in spazi sempre più angusti, modificato geneticamente per produrre sempre più carne in sempre minor tempo, alimentato con mais e soia, disinfettato con antibiotici perché esposto a frequenti malattie, è diventato una commodity industriale.

Lo ha ben raccontato Massimo Liberti nel libro “I signori del cibo”, dove descrive come la filiera del maiale sia in mano ai capitani della finanza mondiale e risponda a obiettivi di massimizzazione della produttività e dei profitti, come se allevare animali fosse equiparabile a produrre automobili.

Ugualmente il consumo di carne e gli allevamenti industriali degli animali sono corresponsabili della crisi ambientale e climatica. Nel 2018 il consumo di carne ha sorpassato la crescita demografica come causa del consumo di suolo e del cambio di uso del suolo. L’80% della deforestazione è causato da filiere agroindustriali, in primis dal consumo di suolo per allevare bestiame e per coltivare soia, mangime iperproteico.

Solo rimanendo in Europa, i Paesi che hanno sviluppato le filiere industriali della carne tra cui anche l’Italia nella Pianura Padana stanno affrontando problemi di difficile risoluzione causati dalla lisciviazione di nitriti e nitrati generati da reflui zootecnici e dalle emissioni di metano dei bovini, un potente gas serra.

La civiltà umana ha determinato la scomparsa dell’83% dei mammiferi selvatici!

La tendenza della comunità scientifica a confrontarsi con temi e sfide in modo analitico e separato va superata per affrontare la questione animale in modo unitario e integrato: i temi della salute, del clima, dell’ambiente, dell’utilizzo delle risorse e non ultimo della sofferenza animale vanno affrontati in un tavolo congiunto a cui confluiscano virologi, etologi, zoologi, filosofi, economisti, epidemiologi, climatologi, agronomi.

Oppure vogliamo continuare così e, dopo ogni epidemia o pandemia, far tornare tutto come prima?

Il 2020 offre delle opportunità di cambiamento. La conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla Biodiversità che si terrà proprio a Pechino nell’ottobre 2020, può e deve essere un’occasione per discutere su come rapportarci con gli animali in modo nuovo, non solo in un’ottica di conservazione delle specie selvatiche a rischio ma di tutti gli animali, anche quelli selvatici e non allevati a scopo alimentare.

* Silvia Stefanelli, sperta nazionale già nella Commissione europea per le tematiche agricoltura, foreste e clima
 

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