Monsignor Pellegrini: «Aiuteremo i più disagiati, che errore paragonare le chiese a bar e cinema»

Il vescovo  di Pordenone parla della Chiesa ai tempi del coronavirus: non ci siamo sentiti né soli né inutili. Il Papa in San Pietro? «Mi ha commosso». I nuovi poveri? «Non li lasceremo soli» 

PORDENONE. La prima Pasqua che sembra non Pasqua. Da oltre un mese le chiese sono aperte, senza possibilità di partecipare ai riti. Ne parliamo con il vescovo di Concordia-Pordenone monsignor Giuseppe Pellegrini.

Eccellenza, questo dialogo sarà incentrato soprattutto sull’emergenza coronavirus. Si sarà posto la domanda di tutti: perché tutto questo?

«È difficile dire il perché. Molti hanno formulato ipotesi differenti. Non sono uno scienziato e studioso di questi fenomeni, però mi sono fatto l’idea che l’epidemia che si sta diffondendo a macchia d’olio sia causata da uno stile di vita che non rispetta più la realtà e l’ambiente, preoccupati unicamente del profitto e dello sfruttamento della terra, costi quel che costi. Agli inizi della pandemia, guardando la cartina della diffusione del virus, si vedeva chiaramente che le zone più colpite erano quelle più inquinate. Qualcuno sostiene che è la mancanza di ozono nell’atmosfera che favorisce una così rapida diffusione del virus».



Chiese aperte, ma di fatto irraggiungibili. Il clero subisce o reagisce? I più giovani preti si sono attrezzati con i social, ma quelli più in là con gli anni? Anche la fede ha dovuto affidarsi al virtuale e non all’altare: si perde qualcosa dell’essere Chiesa?

«Si sta perdendo non solo qualcosa, ma tanto di più! Essere Chiesa significa essere una comunità, persone che si incontrano, che si vogliono bene, che vivono insieme il momento della celebrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti e che testimoniano la gioia e la bellezza dell’incontro con Gesù. Tutti questi aspetti in questo periodo non si possono vivere. Ma, oltre alla dimensione comunitaria, che è fondamentale, c’è anche l’aspetto personale della fede e dell’incontro con Gesù, che non va sottovalutato. Spero che in questo periodo tanti valorizzino questa occasione per irrobustire la propria adesione al Signore, aiutati anche dai mezzi di comunicazione».

Come trascorre queste giornate di isolamento forzato? La gente che cosa chiede?

«Ho voluto anch’io rispettare le indicazioni del “restare a casa”. Costa un po’, perché non abituato a rimanere sempre in casa e a non incontrare direttamente le persone. Non mi sono sentito solo e nemmeno inutile. Dedico più tempo alla preghiera. Il compito primo di un sacerdote e anche del vescovo è di pregare per la comunità che il Signore mi ha affidato, la nostra diocesi e il mondo intero. E poi anch’io, con i mezzi disponibili, ascolto le persone per telefono o per iscritto. I problemi che sta creando l’isolamento forzato, soprattutto per le persone che vivono qualche situazione particolare di fragilità o malattia, sono tanti. Ne ascolto anch’io ogni giorno qualcuna e vi confesso che la richiesta più pressante che mi viene fatta è di “pregare”. Non è tempo perso la preghiera. È uno dei doni, è il servizio più grande che posso fare in questo tempo alle persone».

Alcune parrocchie hanno contratto mutui per opere pastorali e artistiche. Come li affronteranno, tenendo presente che la difficoltà economica colpisce anche la Chiesa? E ancora, con la prospettiva della diminuzione di entrate, come aiuterete i poveri?

«Anche le parrocchie sono come le nostre famiglie. Meno introiti e mutui o lavori da fare, perché urgenti. Ma molti sacerdoti sono preoccupati di come poter aiutare le tante persone e famiglie che già sentono forte la crisi economica che sta avanzando. Come cristiani non dobbiamo mai perdere la fiducia nella provvidenza. La storia ci insegna che nei momenti più duri e più difficili, anche economicamente, non è mai venuta meno la carità delle persone, che condividono quello che possiedono con poveri e soffrenti. E poi, le opere più belle e più grandi sono state costruite in tempi di miseria e povertà, soprattutto con le offerte della povera gente. La Chiesa italiana ha già messo a disposizione della Caritas ingenti somme per affrontare questo primo periodo di emergenza. Appena sarà possibile, come Diocesi e parrocchie ci organizzeremo con delle raccolte a favore dei più disagiati».

Fedeli senza sacramenti. Fanno male i “funerali” senza funerale, sono saltate cresime, battesimi, matrimoni. Ma anche la “stagione” della preparazione ai sacramenti. La settimana santa, la confessione.

«È l’aspetto che mi fa più soffrire. Sta venendo meno la vera identità dell’essere cristiani. Non tanto per la mancanza dei riti, quanto perché la Chiesa si forma attorno all’altare, celebrando insieme, come comunità, l’amore di Dio, donatoci da Gesù, nella sua morte e risurrezione. Amore che si comunica a noi, nei segni sacramentali della Chiesa. Per fortuna che la diocesi e le parrocchie si sono attrezzate e, attraverso i mezzi della comunicazione, continuano a sostenere il cammino spirituale delle persone. Mi permetto una riflessione più ampia. È giusto che lo Stato si preoccupi del bene più grande che è la salute dei cittadini e sono necessarie le restrizioni che sono state date. Quello che mi ha fatto soffrire tanto è che a nessuno dei nostri governanti è passata l’idea che c’è anche una salute “spirituale” da difendere e da salvaguardare. La persona umana è unità di corpo e di spirito. Uno sostiene l’altro. Non è giusto paragonare i luoghi di culto (tutti i culti!) ai bar, ai cinema o alle palestre! Mai una parola, un’attenzione. Anche nell’autocertificazione, non si fa cenno che ci possa essere una qualche esigenza spirituale! Sono necessarie le limitazioni… ma con deroghe come si è fatto per altri settori».

Torniamo alla morte. Tante famiglie mutilate dal coronavirus. I malati muoiono soli. Una figlia, parlando del decesso della madre che non ha potuto vedere gli ultimi venti giorni e tantomeno nella bara, mi ha detto: questa è una crudeltà più crudele della morte stessa.

«Ho parlato anch’io con qualcuno che ha vissuto queste situazioni. La morte e il distacco dai propri cari, in ogni cultura e tradizione, è sempre uno dei momenti più forti e significativi. Toglierlo che sia indice di un impoverimento dei valori di civiltà? È sempre sbagliato fare di ogni erba un fascio. Pur con le dovute cautele sanitarie, poter stare vicino, almeno per un po’, al parente o alla persona che chiede conforto, amicizia e sostegno, non poteva essere concesso? So che una autorità competente, ad un vescovo, ha chiesto la disponibilità di un sacerdote, per essere vicino e portare conforto ai malati di coronavirus in corsia e in rianimazione. Chi vuol capire, capisca!».

Lei celebra in diretta tv la domenica. Come si sente, cosa prova davanti a una chiesa con i banchi vuoti? Niente segno della pace, niente acqua santa, tutti distanti. Davanti, non sembra di avere davvero un vuoto?

«Si celebra sempre per la comunità cristiana e per il mondo intero. Non è il numero delle persone che rende importante la celebrazione. Però la comunità che partecipa attivamente all’Eucaristia è parte necessaria. Nel celebrare in questi giorni, spesso da solo o con qualcuno, non sento il vuoto, perché sono unito profondamente con la gente delle nostre comunità, con gli ammalati che sono in ospedale o nelle case, con le famiglie e le persone chiuse in casa, con tutti quelli che mi chiedono una preghiera e un ricordo al Signore».

Il coronavirus secondo lei ha rafforzato o indebolito la fede?

«Siamo in tanti che ce lo chiediamo. Certamente non sarà più come prima. Molti preti, che quotidianamente sono in contatto con numerosi loro parrocchiani, sono convinti che, nonostante la difficoltà di partecipare alla vita della comunità e ai sacramenti, si sono sentiti sostenuti e incoraggiati, riscoprendo al bellezza e la gioia di vivere la fede in una dimensione più vicina, familiare. Aiutati dalla numerose provocazioni formative, tanti stanno riscoprendo che anche in casa, in famiglia, si può dedicare dello spazio e del tempo al raccoglimento e alla preghiera. C’è pure il pericolo per qualcuno che la lontananza prolungata dalla vita sacramentale possa creare disaffezione, fatica e mancanza di desiderio di riprendere il cammino».

Avrà visto papa Francesco in una piazza San Pietro vuota. Che sensazione ha avuto?

«È stato uno dei momenti più commoventi che ho vissuto. Papa Francesco in quella croce ha portato tutte le sofferenze e le difficoltà che l’umanità sta vivendo. Una umanità che pensa di fare senza Dio. Ci siamo sentiti uomini e donne fragili, che hanno bisogno dell’amore e della misericordia del Padre. Papa Francesco ce l’ha ricordato con la sua testimonianza di vita e con la sua fede incrollabile. Come tantissime persone, anch’io mi sono commosso fino alle lacrime».

Eccellenza, siamo alle porte di una Pasqua che sembra non Pasqua.

«Può sembrare un paradosso, ma la Pasqua di quest’anno possiamo dire che ci riporta alla Pasqua che ha celebrato il popolo ebreo prima di uscire dalla schiavitù dell’Egitto. La Pasqua è la festa che si celebrava in famiglia. L’angelo passò e risparmiò le case degli ebrei, perché segnate dal sangue dell’agnello. In quella notte, la famiglia riunita fu risparmiata dalla distruzione. È la Pasqua che ha celebrato Gesù in casa con i suoi amici, tra le mura domestiche. Anche tutti noi quest’anno siamo invitati a celebrare la Pasqua in famiglia, aiutati dai mezzi della comunicazione. Anche con un po’ di paura e di preoccupazione, viviamola con gioia, accogliendo la presenza di Gesù Risorto, che ci porta la pace nel cuore e la speranza di tempi migliori. Lui è con noi e non ci lascia soli, in attesa di poterla celebrare – ogni domenica è la Pasqua settimanale – nella grande famiglia, la Chiesa, luogo dove nasce e cresce l’amore e il servizio che ciascuno rende all’altro. Buona Pasqua. Il vostro vescovo, Giuseppe Pellegrini».

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