“Mistero buffo” e gag a tutto campo: show di Paolo Rossi nel supercarcere
L’attore, che in questi giorni si è esibito in Friuli, si è esibito anche a Tolmezzo davanti ai detenuti: «Recito qui... così nessuno se ne va prima della fine»

TOLMEZZO.
Non ha importanza dove lo fai, il teatro, ma come lo fai. Può essere espresso, door to door, istituzionale, stradale, ovunque puoi trovare un buon palco su cui salire. «È la madre di tutte le arti - dice Paolo Rossi guardando le montagne cupe che sbattono contro il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo - e il futuro la vedrà sempre al suo posto». Eccoci qui, pronti a penetrare porte e portoni della Casa circondariale.
Alle 11 si va in scena. Complice il Css, che favorisce spesso l’osmosi. Se non puoi andare a teatro, è il teatro che viene da te. Massima confuciana travestita. Paolo Rossi è in zona. La sua «umile versione pop» del Mistero buffo di mastro Dario Fo è passata per Udine e Cervignano, va da sè che il comico - appena può - una visitina ai carcerati la fa sempre. «Me ne sono fatti parecchie di prigioni - racconta, cuffia di lana calata sugli occhi - a parte quella palermitana. Rebibbia, Regina Coeli, la Fortezza di Volterra. Ah, proprio alla Fortezza mi hanno dato da mangiare pecora. Siccome i ragazzi erano piuttosto corpulenti, pur facendomi schifo, ho detto che era squisita».
Una mission possible, quella del monfalconese, vicino al popolo, per conformazione artistica. Il piccolo carro di Tespi (giusto per rinfrescare la memoria greca, il poeta portava spettacolo da una città all’altra dell’Attica col suo carrettino-palco), ovvero Rossi, Lucia Vasini, compagna di mille battaglie, e il chitarrista Emanuele Dell’Aquila, è al posto di blocco. Giù telefonini e documenti, accorta perquisizione, e ci s’invola verso la saletta ludica.
L’attore ha qualche dubbio: «Quanto tempo ho?». Gli rispondono un’oretta scarsa. La scaletta prevede stralci di Mistero buffo, comicità varia con interazione platea-palco. «Forse è meglio prima fare quattro chiacchiere poi parto col Mistero». I suoi annuiscono.
Trecento detenuti, perlopiù accusati di criminalità organizzata. A parte, le celle del cosiddetto 41 bis. La passeggiata per i corridoi è lunga. Dipinti sulle pareti, profumo di pulito. Mah, tutto pare, a parte un carcere. Forse vediamo troppi film americani. Il direttore è una signora: muscoli, gentilezza e grinta. La dottoressa Silvia Della Branca è un turbine d’idee e, per questo, Tolmezzo è un modello italiano. «Basta parlare male degli istituti di pena; non sono periodi facili, lo ammetto, ma noi cerchiamo lo stesso di essere costruttivi. Oggi è uno special day. Un attore del calibro di Rossi ci fa onore». Curiosità, dottoressa: come scegliete gli spettatori? «In base al tipo di proposta. Tutti non è mai possibile, per ovvie ragioni. Quelli diciamo convocati stamattina (ieri per chi legge, ndr) hanno un livello culturale superiore».
Sulla parte sinistra del palchetto, in una rastrelliera, sono raccolte alcune chitarre. «Facciamo anche musica», precisa il direttore. Dell’Aquila accorda lo strumento, Rossi passeggia, Lucia Vasini si piglia un posto in prima fila. L’aria odora di recita underground, quelle mitiche dei sottoscala negli anni belli del nascente cabaret. L’applauso colpisce Rossi. Si comincia. L’incipit è tagliato su misura. «Un mio amico ha ricevuto lo stesso giorno lo sfratto e gli arresti domiciliari». Si squarcia quel minimo di tensione. «Preferisco recitare in carcere: così ho la certezza che nessuno se ne va prima della fine». Ormai è empatia reciproca. I ragazzi (ma c’è anche qualche terza età) se la godono, Rossi sguazza nel suo. La sinergia è perfetta. È giusto spiegare l’anamnesi della comicità. «Un tempo c’era il re e c’era il buffone. Il re faceva il re e il buffone, il buffone. Adesso il re vuol fare tutto lui. Mi spiace parlar male dei colleghi».
Lo show è innescato, da questo punto in poi va da solo. Il piccolo grande uomo è l’unico a far satira con una certa eleganza. Non pensiamo dia noia neppure ai nemici. Un giovanotto in seconda fila, parlata sicula e favella veloce, innonda Rossi di domande: «Che succede quando la realtà supera abbondantemente la fantasia?». E sul tic satirico italiano: «Alle volte la cattiveria è esagerata». Paolino Rossi: «La satira non è buona, non può essere buona, sarebbe un controsenso». Il mini show continua. Il Papa finisce nel mirino. «Andate su YouTube a vedere il filmato dell’aggressione a Benedetto XVI: non cade mica come noi». E si scatena la mimica. Platea in giuggole. Lo avvertono alla fine: «Qui non ci può collegare a Internet, almeno lo spero», precisa il direttore. Rossi: «Porca miseria!».
E ci siamo. Il Mistero. «Ai comici di questo Paese, non resta che diventare seri». E ci s’intrufola nelle leggende, nei vangeli aprocrifi, in quella «emarginazione da povericristi della tradizione popolare». L’idea del guitto è geniale: «Io ed Emanuele, travestiti da scafisti balcanici, faremo calare un gommone nelle acque del Lago di Garda riempito di manichini neri. L’intenzione è sbarcare a Salò per vedere l’effetto, sostenuto dalla battuta topica: “Scusate, è questa Lampedusa?”». SuperRossi.
Una schitarrata finale con la versione western-country di Ho visto un re, by Iannacci, ed è il the end. Rossi è felice quando gli dicono che può fumare alla finestra. Si accende una bionda e guardando lo stesso scenario di prima, ovvero montagne cupe con pioggia abbondante, ci chiede: «Come si vive in Friuli? Ho una mezza idea di tornarci, prima o poi. Di Milano non ne posso più. Qui hai il mare, hai la montagna, il traffico è sopportabile». Un ritorno a Monfalcone? «Non è detto. Mi piacerebbe Trieste. E poi adoro la bora. Ed entrare in un bar caldo, dopo aver ballato col vento».
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