Mimina, l’antropologa pordenonese per amore che ha spiegato l’Africa a Zalone in “Tolo Tolo”
l’intervista
laura berlinghieri
C’è anche un pezzo di Pordenone in “Tolo tolo”, il film campione di incassi di Checco Zalone, in questi giorni al cinema. Lo porta Mimina Di Muro, antropologa nata in Senegal, in Italia dai 16 anni e, dal 2011, residente in provincia di Pordenone. Contattata da Checco Zalone, la donna ha prima lavorato come “consulente”, nella fase di studio della sceneggiatura, per poi spostarsi sul set e fare da assistente alla regia e “dialogue coach” agli attori francoafricani che non conoscevano l’italiano.
Come è nata la collaborazione con Checco Zalone?
«Nel giugno del 2018 sono stata contattata da Checco Zalone: stava scrivendo la sceneggiatura del suo nuovo film, che in parte sarebbe stato ambientato in Africa. Cercava una persona che conoscesse il continente e lo aiutasse. Aveva già scritto una prima sceneggiatura, a cui ha poi rimesso le mani diverse volte. L’ho letta, mi ha chiesto dei consigli e delle indicazioni».
Ad esempio?
«Consigli sui nomi dei personaggi e dei luoghi, consigli sui costumi, traduzioni. Indicazioni su abitudini e usanze, come ad esempio chi assiste alla nascita di un bambino: le donne. Solo in un secondo momento il piccolo viene presentato al resto del villaggio. In un’altra occasione mi ha chiesto come avvengono i saluti e la gestualità delle persone che si salutano: solitamente in Africa è un rituale piuttosto lungo, in cui ci si informa sullo stato di salute di tutti i componenti della famiglia».
È stata anche sul set?
«Sì, per 20 settimane: da gennaio a settembre. È stata la mia prima volta. Dopo aver lavorato alla sceneggiatura, Checco mi ha proposto di seguire gli attori francoafricani che non conoscevano l’italiano, facendo loro da “dialogue coach”. Io parlo italiano, francese e due lingue africane: wolof e bassari. Ho lavorato con due attori francesi – Souleymane Silla, di origini senegalesi, e Manda Touré, di origini maliane – prima delle riprese, da agosto a gennaio. Poi Checco mi ha chiesto di affiancarlo sul set come assistente alla regia, quindi a gennaio sono partita con tutta la troupe, per seguire i due coprotagonisti. Li accompagnavo ogni mattina al trucco e parrucco e, durante la preparazione, ripetevamo insieme le battute. Traducevo quello che mi diceva Checco. Ero interprete e mediatrice, al loro fianco anche mentre giravano le scene per dare eventuali indicazioni».
Le piacerebbe ripetere questa esperienza?
«Sicuramente, il mondo della regia mi affascina molto. Ma rimango una ricercatrice. Mi sono laureata a Torino in antropologia, poi ho fatto un dottorato a Parigi e ora collaboro con la Sorbona. Faccio ricerche sul campo in Africa occidentale. Ora sto scrivendo un articolo con un collega francese dedicato a un rito svolto da una popolazione del Senegal meridionale. Lo stiamo trattando da due punti di vista: maschile e femminile, di uno straniero e di una nativa».
Facciamo un passo indietro, alla sua vita in Senegal...
«Sono nata a Dakar 37 anni fa. Madre senegalese, originaria di un villaggio sperduto nella savana, Ethiolo, e padre italiano, di origini calabresi, ma nato a Cuneo. Prima di conoscere mia madre, lui era marinaio. Ha vissuto in Africa per 30 anni e lì si sono conosciuti. Dopo di me, sono nati i miei due fratelli: uno vive a Cuneo, l’altro in Nuova Zelanda. In Senegal si parlano 32 lingue completamente diverse tra loro. Io a casa parlavo francese e un mix tra wolof e bassari. Ho trascorso l’infanzia in Senegal, ho frequentato le medie in Costa d’Avorio, poi ho vissuto 3 anni in Etiopia. La mia famiglia ha seguito il lavoro di mio padre: disegnatore, lavorava in collaborazione con i centri culturali francesi. A 16 anni ci siamo trasferiti in Italia, dove ho frequentato il triennio del Liceo. I primi due anni sono stati traumatici. Le persone erano molto chiuse e faceva freddissimo. Sognavo di tornare in Africa. Poi, grazie ai nuovi amici, mi sono abituata».
Cosa l’ha spinta a trasferirsi a Pordenone?
«L’amore. Ho conosciuto un uomo friulano che poi sarebbe diventato il mio compagno. All’inizio ho avuto un po’di difficoltà ad ambientarmi, perché la gente di qui può sembrare molto dura. Ma in realtà sono persone di cuore, basta rompere il ghiaccio. Poi ho un bambino di sei anni e questo facilita molto i rapporti con le persone del posto. E i posti sono splendidi: la natura è bellissima, ancora molto selvatica. Ci sono luoghi incontaminati che mi affascinano molto. D’altra parte viviamo in un periodo in cui il tema ecologico è centrale: basti vedere cosa sta accadendo in Australia. Mi ha rattristato sapere che molti “pan e vin” di questi giorni sono stati “dedicati” a Greta Thunberg, fatta “bruciare” al posto della befana. È un rituale tradizionale che ha subìto speculazioni assolutamente inopportune». —
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto