Mattia a 23 anni è il più giovane casaro del Friuli

La passione ereditata dal nonno Giuseppe. Fin da bambino passava le estati in malga Ramaç, sopra Paularo. Ancora oggi gli brillano gli occhi al ricordo della prima volta che nonna Cesarina, classe 1935, gli diede il permesso di mungere una mucca

PAULARO. Ancora oggi gli brillano gli occhi al ricordo della prima volta che nonna Cesarina, classe 1935, gli diede il permesso di mungere una mucca.

«Quando al pomeriggio si avvicinava l’ora di andare in stalla, ero capace di lasciare una partita di calcio a metà per correre dalla piazza a casa sua». Per nulla al mondo si sarebbe perso quell’appuntamento giornaliero. Come mai avrebbe barattato le sue estati in malga per una vacanza al mare.

«In mont», in malga Ramaç sopra Paularo, ci saliva con nonno Giuseppe, mancato tre anni fa. Era piccolo, in quarta elementare, quando ci è andato la prima volta. Ricorda come fosse oggi l’appuntamento con la transumanza e l’ansia con cui aspettava la sveglia delle 5 di mattina. Insieme «all’emozione indescrivibile» di quei mesi trascorsi col nonno.

«Lassù mi permettevano di mungere le mucche, di farle pascolare, di preparare il fieno». Mattia De Toni, di Trelli di Paularo, 23 anni appena compiuti, è il più giovane casaro del Friuli. È stato proprio il nonno ad insegnarli le basi di quello che poi sarebbe diventato il suo mestiere. A fare il formaggio e a curarlo in tutte le fasi della stagionatura. «Mi chiedo sempre se sarebbe stato orgoglioso di me», dice. Il nonno, che faceva il muratore, d’estate lasciava il paese per dare una mano in malga.

Per qualche anno si è portato dietro anche il nipote. «Ero ansioso di imparare, di ascoltare, di osservare e di occuparmi di tutto quello che mi permettevano di fare. E l’estate senza vacanze non mi è mai pesata». Anzi. Probabilmente proprio allora Mattia ha capito che il suo mondo era quello: in mezzo alla natura, ad allevare animali e fare formaggio. Nella sua Carnia che mai, per nessun motivo, abbandonerebbe.

«Non smetterò mai di essere grato ai miei nonni per avermi trasmesso una passione in maniera così profonda». Come non ringrazierà mai abbastanza, ammette, mamma Roberta e papà Mario per «i tanti sacrifici» fatti per mandarlo a studiare a Cividale.

Mattia si è infatti diplomato all’Istituto tecnico agrario e in una latteria vera – quella della Carniagricola di Enemonzo, azienda con caseificio e spaccio che alle spalle ha una storia centenaria di quattro generazioni –, ci è entrato proprio grazie alla scuola. Per un tirocinio.

È stato così che, nemmeno il tempo di riporre i libri dopo la maturità, ad una settimana esatta dall’esame, all’aspirante casaro è giunta l’offerta di lavoro. Proprio dalla Carniagricola. «Alla quale, ovviamente, ho risposto subito sì». Neanche dieci giorni dopo era già in latteria. Lì, grazie al mastro casaro Giacomo Della Schiava, Mattia ha imparato a lavorare il latte crudo e la tecnica della salatura, antico metodo che consente di mantenere morbido il formaggio per tutto l’anno, conferendogli un sapore caratteristico e intenso.

«È stato un onore avere “Jacum” come punto di riferimento in un mestiere tutt’altro che facile». Mentre parla del suo lavoro ben si intuisce che fare il «fedâr» per Mattia è qualcosa di più di un’occupazione a cui dedicare, comunque, tutto se stesso.

«È un’arte che non si smette mai di apprendere». Sul campo e sui libri. Mattia, qualche mese fa, per migliorarsi è andato a studiare anche all’Accademia internazionale dell’arte casearia in provincia di Treviso. Ogni giorno, invece, si sveglia all’alba e alle 6 è già all’opera. Significa che con gli amici di sera si esce poco, anzi pochissimo. «Non mi pesa affatto perché – e per questo dico grazie ai miei genitori che me l’hanno trasmesso – metto sempre il lavoro al primo posto. In latteria non si può arrivare stanchi. Serve concentrazione, perché se ti distrai rischi di buttare via l’intera produzione».

Mattia sulle sue spalle sente pure un’altra grande responsabilità. «Mi rendo conto – ammette – di essere parte di una tradizione che va scomparendo e “sento” il dovere di fare sempre del mio meglio, mettendoci tutto l’entusiasmo possibile. Ogni giorno. In tutto ciò che faccio».

Da un paio di mesi il giovane casaro è passato alla Latteria di Ovaro. «Qui il latte che lavoro è pastorizzato». Una procedura diversa da quella del latte crudo. «Motivo per cui cerco ogni giorno di imparare più che posso. Voglio ripagare della fiducia che mi è stata data.

E cerco di farlo con umiltà, rispetto ed educazione». Mattia non è affatto spaventato dalla nuova avventura – oltre alla pressatura del formaggio, al momento si dedica a produrre ricotta e yogurt, di vacca e di capra – che vive come un’opportunità di crescita. Personale e professionale. «Non mi preoccupa se in azienda sono il più giovane. Anzi, mi ritengo fortunato: ciò vuol dire che chi ha più esperienza di me ha davvero tanto da insegnarmi».

E – si intuisce ascoltando ciò che ha da dire sul suo «mondo» – Mattia non è uno che ama essere lodato: «Non cerco complimenti, ma chiedo che mi venga sempre detto se sbaglio. In questo lavoro, infatti, devi cercare di non commettere errori». Una delle virtù richieste è la pazienza. «I risultati non si vedono subito, ma una volta che il formaggio arriva sulla tavola del consumatore».

Mentre si racconta, ammette di avere un unico, grande, rammarico. Aver lasciato che nonna Cesarina, qualche anno fa, vendesse le sue due mucche perché era diventato troppo fatico continuare ad accudirle. «Stavo ancora studiando. Sarebbe stato impossibile accollarmi il compito. Per questo le dico sempre: “Nonna, avrei dovuto nascere prima… oppure tu, qualche anno dopo! ”».

Accantonato per ora il desiderio di una stalla tutta sua, Mattia coltiva un altro sogno. «Diventare un bravo casaro». E produrre un formaggio con un suo stile. «Che si capisca che l’ho fatto io». Non pensa affatto «a copiare» dagli altri. «Sarebbe come rubare il sacrificio altrui». Ma in fondo al cassetto, svela, è riposto anche dell’altro: «Avviare una latteria tutta mia. Una piccola produzione locale che metta insieme, in una filiera, i piccoli allevatori della Carnia». Perché è nella terra a cui è legato che questo giovane vede il suo futuro. A fare ciò che ama. Un progetto di cui nonno Giuseppe andrebbe di sicuro orgoglioso.
 

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