Malattia di Kawasaki e Covid-19: «C'è una correlazione che colpisce i bimbi»
Non è vero che il coronavirus non colpisce i bambini. Semplicemente, da questo virus possono derivare varie malattie. E, nei più piccoli, la polmonite da coronavirus non esiste, se non in forme estremamente sfumate, per le quali non c’è quasi mai necessità di ricovero o di ossigeno. Ma potrebbero esistere altre manifestazioni del Covid-19, in grado colpire i bimbi. È una scoperta anche veneta, che porta tra le sue firme quella di Lorenzo D’Antiga, medico del Lido di Venezia, direttore del reparto di Pediatria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo . Nella “fossa dei leoni” in questi mesi di emergenza sanitaria.
Prima di tutto, cos’è la malattia di Kawasaki?
"Una malattia infiammatoria delle piccole e medie arterie, che colpisce soprattutto i vasi del cuore, avendo però un interessamento generale. Si manifesta con febbre alta, eruzione cutanea, gonfiore di mani e piedi e infiammazione delle mucose, soprattutto bocca e congiuntiva. Di solito colpisce bimbi intorno agli 3 anni, ma in queste settimane l’età media è di 8 anni, con il caso limite di un 15enne. Conosciamo questa patologia da 50 anni, ma non ne è mai stata individuata la causa precisa, pur ritenendosi che fosse un virus a scatenare la reazione immunologica. È il sistema immunitario a danneggiare i vasi sanguigni».
In base a cosa ritiene che ci sia un collegamento tra questa malattia e il Covid-19?
«In base ai numeri. Nel solo ultimo mese, a Bergamo, abbiamo visto una quantità di bambini colpiti da questa malattia pari alla cifra che di solito notiamo in 3-4 anni. Dodici pazienti in 30 giorni, contro i 19 in 5 anni. Tutti loro erano entrati in contatto con il Covid-19, formando gli anticorpi e sviluppando una forma della malattia di Kawasaki particolarmente severa, con un importante interessamento cardiaco e circolatorio, che rende necessario un trattamento farmacologico aggressivo a sostegno della pressione cardiaca per rispondere all’invasione dei vasi sanguigni. Contrariamente ai pazienti con polmonite, non hanno problemi respiratori».
Questi bambini non avevano, dunque, tampone positivo?
«Solo uno. Gli altri avevano “incontrato” il virus, che se ne era andato, lasciando una memoria immunologica. Il sistema immunitario, attivato dal coronavirus, provoca l’insorgere della malattia».
Come stanno i bambini?
«Otto sono stati dimessi, due sono ancora in reparto e gli ultimi due arrivati sono in rianimazione. Di solito, all’inizio la situazione è critica, ma poi la risposta è molto buona. Due dei piccoli dimessi hanno avuto come conseguenza una dilatazione delle coronarie che dovrà essere controllata nell’età adulta, ma è una conseguenza frequente della malattia».
Cosa sapete, dunque, della relazione tra Covid-19 e malattia di Kawasaki?
«Rimane la bassa incidenza, seppur trentuplicata rispetto al solito. Questa malattia colpisce un bambino su mille infetto dal virus, percentuale molto più bassa rispetto a quella che riguarda la polmonite degli adulti. Inoltre, questi bambini hanno un fattore predisponente, che tuttavia ancora non conosciamo».
Quindi la vostra intuizione si basa sui numeri?
«Anche, ma noi siamo assolutamente certi di questa correlazione. Normalmente in un anno accogliamo tre pazienti, mentre da un mese abbiamo un paziente ogni tre giorni: è evidente che sia dovuto a un comune fattore scatenante. I bambini colpiti negli anni scorsi, poi, non avevano anticorpi contro il coronavirus, mentre quelli colpiti negli ultimi 30 giorni li hanno. Lo abbiamo verificato. Sono dati molto forti, che vedono concordi molti pediatri europei, arrivati alla stessa conseguenza».
Cambiando argomento, com’è la sua vita in trincea?
«È dura, molto dura. Io sono originario del Lido di Venezia, ma vivo a Padova, dove ho lavorato a lungo. Lì ci sono mia moglie e i miei quattro figli, che non vedo da due mesi. Sia per un lavoro che non si ferma mai, sia per la paura di tornare a casa e poterli infettare».
A Bergamo ha lavorato anche con pazienti Covid?
«Sì. Scoppiata l’epidemia, nel nostro ospedale sono state ricoverate 500 persone adulte per Covid-19. Non c’erano sufficienti medici, quindi sono stati chiamati professionisti da tutti i reparti. Io ho lavorato in pneumologia, insieme ai professionisti del mio team. Ho curato diversi pazienti che avevano contratto la polmonite da coronavirus»
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