Malato di Sla sceglie la fine: "Dormire fino alla morte"

Settantenne trevigiano aveva chiesto di essere messo in sedazione profonda. Macchine mai staccate. La moglie: «Non è eutanasia». È la prima volta in Italia
Ferrazza Montebelluna macellaio Bettamin
Ferrazza Montebelluna macellaio Bettamin

TREVISO. Ha scelto di morire senza soffrire, scivolando nel sonno che più di ogni farmaco alleviava il suo dolore. Dopo cinque anni di lotte e sofferenze, Dino Bettamin, 70 anni, macellaio di Montebelluna (Treviso), ammalato di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), se n’è andato in pace, come lui che era terrorizzato dall’idea di morire soffocato, aveva chiesto, in uno stato di sedazione palliativa o “profonda”.

«Voglio dormire fino all’arrivo della morte, senza più soffrire» aveva detto. Il suo desiderio è stato esaudito, rispettando anche il suo rifiuto a qualsiasi trattamento, compresa la nutrizione artificiale. È la prima volta che accade in Italia. «Mio marito era lucido - racconta la moglie, Maria Pellizzari - Non è eutanasia, ma una scelta di vita. Cosìý dopo l’ultima grave crisi respiratoria è iniziato il suo cammino».

La sera del 5 febbraio la Guardia medica ha aumentato il dosaggio del sedativo che l’uomo assumeva via flebo. Il giorno seguente il medico dell’assistenza domiciliare ha iniziato a somministrare gli altri farmaci del protocollo. Dino Bettamin è morto, una settimana dopo, il 13 febbraio, assistito dalla sua famiglia.

«Non ha mai chiesto di morire- spiega Anna Tabarin, l’infermiera che assieme a un collega dell’associazione “Cura con cura” da due anni seguiva in casa il malato - Era profondamente religioso e si è è affidato a Dio. Sapeva che sarebbe potuto morire dopo un giorno o dopo cinque mesi». Il trattamento - ricorda l’infermiera - è prassi consolidata nei malati oncologici terminali, mentre è più atipica, anche se nulla lo vieta, per malati affetti da altre patologie terminali.

Si può applicare, dopo parere medico, in presenza di sintomi refrattari a qualsiasi trattamento con farmaci o psicologico». Tutto - sottolinea - deve essere provato prima della sedazione palliativa. Per Dino, il sintomo refrattario era la profonda angoscia, che aveva ripercussioni anche sulla respirazione, trasformandosi in “fame d’aria”.

«La macchina per la ventilazione respiratoria - precisa Anna Tabarin - è stata staccata solo dopo la dichiarazione di morte fatta dal medico curante». La sacca dell’idratazione è rimasta sempre in funzione. «Non si parli di eutanasia: il paziente può chiedere di sospendere certe terapie perché oltrepassarle sarebbe un accanimento terapeutico» commenta il direttore generale dell’Ulss 2 Francesco Benazzi.

Il parroco del duomo di Montebelluna, don Antonio Genovese, parla di un percorso nel solco di Dio: «Un uomo di fede, coraggioso che ha sofferto molto e combattuto, ma l’aggravarsi della malattia l’ha portato a chiedere di essere lasciato “partire” verso la Casa del Signore - dice - La sua volontà era di non staccare la spina ma di essere lasciato alla volontà di Dio».

Le macchine non sono state staccate- sottolinea il parroco - Le flebo erano in funzione e anche il respiratore è stato staccato solo dopo un’ora dalla morte. Per Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà scientifica, il caso di Dino «conferma ciò che abbiamo conquistato in un decennio di lotte al fianco di Piergiorgio Welby, Peppino Englaro e tanti altri malati: il diritto costituzionalmente garantito a sospendere le terapie sotto sedazione».

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