L’omicidio Budai, lo sfogo della famiglia: «Massacrò Roberta: ora è di nuovo libero» LE FOTO

GONARS. La uccise a fucilate, infilò il cadavere in un sacco e lo gettò in un cassonetto delle immondizie. Quando, a distanza di qualche giorno, fu ritrovato, triturato in mezzo ai rifiuti della discarica di Firmano, di quel corpo non erano rimasti che i brandelli. La vittima si chiamava Roberta Budai, aveva 31 anni e abitava a Fauglis di Gonars. Il suo carnefice era - e resta - Felice Di Menna, originario di Sulmona (L’Aquila) e, all’epoca, 37enne e sottufficiale al quarto reggimento “Genova Cavalleria” di Palmanova.
Tra i due esisteva una relazione sentimentale. Una storia extraconiugale finita in tragedia nel momento in cui lei, rimasta incinta da lui, regolarmente sposato con un’altra donna, aveva deciso di tenere il bambino. Di fronte al rischio di uno scandalo, Di Menna preferì ucciderla. E fare sparire, insieme all’amante, anche il figlio che stava crescendo nel suo grembo. Succedeva l’8 gennaio del 2001.
L’assassino, individuato e arrestato quattro giorni dopo, fu processato e condannato a 20 anni di reclusione nel successivo mese di dicembre. Ebbene, a dodici anni dal delitto, uno dei più efferati casi di femminicidio che il Friuli e l’Italia intera ricordino, Di Menna è di nuovo un uomo libero. Scontata sì e no la metà della pena che gli era stata inflitta, a 48 anni è già fuori dal carcere e ha ancora una vita spalancata davanti a sè. La famiglia Budai, invece, non ha più smesso di piangere. Chiusa in un dolore inconsolabile, non potrà mai riabbracciare la sua Roberta. E dei 600 mila euro di risarcimento danni che il tribunale le riconobbe, finora non ha visto nemmeno un centesimo. Nè, forse, li vedrà mai. In una lettera ricevuta qualche anno fa, Di Menna è stato formalmente dichiarato dal proprio legale un «nullatenente».
Un calvario senza fine. È stata la notizia, l’ennesima purtroppo, dell’omicidio di una donna per mano di un uomo, a scuotere ancora una volta l’animo già di per sè prostrato della famiglia Budai. L’assurda fine di Silvia Gobbato, la praticante legale di 28 anni accoltellata lungo l’ippovia del Cormor il 17 settembre scorso, ha riaperto la piaga e spinto i genitori e, ancor di più, il fratello di Roberta a rompere il muro di silenzio dietro il quale si erano rifugiati e gridare il proprio sdegno per una giustizia che non punisce come dovrebbe i responsabili dei reati più gravi e ingiustificabili.
A parlare per i parenti è l’avvocato Antonio Di Piazza, al loro fianco fin dal 2001 con il collega Lillo Fiorello, del foro di Palermo. «È una follia pensare che l’uomo che uccise Roberta e che riuscì a schivare l’ergastolo sia già libero - afferma -. Ed è tremendamente triste constatare come, oltre a non avere mai chiesto scusa o mostrato pentimento alla famiglia, che prima dell’omicidio frequentava abitualmente per la sua relazione con Roberta e per l’amicizia con il fratello, l’assassino non abbia versato neppure una parte del risarcimento. È ovvio, nessuna cifra potrà mai restituire Roberta ai suoi cari, nè riportare la pace in quella casa. Ma se è vero, come ci è stato comunicato qualche anno fa, che Di Menna risulta nullatenente, allora si dovrebbe pretendere almeno che resti dentro a pagare il suo debito con la giustizia. E invece, in questo modo, la famiglia Budai è costretta a subire oltre al danno anche la beffa».
Tra sconti e buona condotta. A ripercorrere le tappe processuali che hanno portato Di Menna a chiudere con tanta rapidità la sua “parentesi” penitenziaria è l’avvocato Fiorello. La sentenza di primo grado risale al 20 dicembre 2001: giudicato con rito abbreviato, l’ex maresciallo dell’Esercito fu condannato dal gup di Udine, Francesco Florit, a 20 anni di reclusione (cioè 30, meno lo sconto di un terzo previsto dalla scelta del rito), a fronte dell’ergastolo chiesto dal pm Giancarlo Buonocore.
A evitargli il carcere a vita fu la concessione delle attenuanti generiche, che il giudice gli riconobbe in virtù della confessione resa agli investigatori (deciso a farsi arrestare, Di Menna consegnò a un sottoposto la borsetta della vittima, permettendo così di risolvere il “giallo” della sua scomparsa). In Appello, nel 2002 - quando era ancora possibile il patteggiamento tra imputato e Procura generale -, la pena fu ridotta di 2 anni. Poi arrivò l’indulto e Di Menna beneficiò di un un ulteriore sconto di 3 anni. In tutto, quindi, fanno 15 anni. Nel frattempo, ottenne l’avvicinamento a Sulmona e dal carcere di Tolmezzo fu trasferito ad altra sede. Il resto è frutto dei benefici penitenziari previsti dalla legge italiana: dalla “liberazione anticipata” (sconto di 45 giorni di pena per ogni semestre in cui il detenuto abbia dimostrato buona condotta e partecipato alle attività di rieducazione), all’affidamento in prova ai servizi sociali, cui si ha diritto per gli ultimi 3 anni di pena.
Dubbi e disperazione. «I genitori e il fratello Nicola, in particolare, sono esterrefatti - riferisce Di Piazza -. Se già all’epoca ritennero la sentenza non equa, adesso, rabbrividendo di fronte a una così lunga serie di casi di femminicidio, non possono non provare ancora più pena per tutte le famiglie che, come loro, si trovano a misurarsi con una giustizia italiana troppo garantista verso chi commette reati di questo tipo. Nel loro caso - aggiunge - si trattò anche di perdere un nipote. Come parte civile, ci battemmo per fare riconoscere il duplice omicidio. Ma, pur essendo già al quarto mese di gravidanza, il bimbo non è considerato persona fino al distacco dal grembo. A questo punto, con il colpevole già libero e un risarcimento che potrebbe non essere mai versato, è difficile non finire per chiedersi quali siano il senso e l’utilità di un processo».
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