L'omaggio di Udine a Giuseppe Ungaretti

Si comincia dalla fine: la lapide in via di Prampero. È stata inaugurata oggi, venerdì 16 dicembre, la lapide con la quale si ricorda che cento anni fa dai locali dello Stabilimento tipografico friulano, che si trovava proprio in via di Prampero, fu pubblicato il primo libro di poesie di Giuseppe Ungaretti.
La manifestazione, e l’iniziativa della lapide, sono state promosse dall’amministrazione comunale e dell’Associazione dei toscani del Friuli Venezia Giulia che da tempo caldeggiava la richiesta di dedicare in Udine un degno ricordo del poeta. L’apposizione della lapide è stata resa possibile dalla disponibilità degli attuali proprietari dello stabile, gli eredi Gattici-Strassoldo, ed è stata propiziata dalla decisione dell’ingegner Giulio Del Mestri di restaurare l’antica insegna dello Stabilimento tipografico friulano, che il tempo aveva praticamente fatto sparire.
In via di Prampero
Nel dicembre del 1916 dallo Stabilimento tipografico friulano usciva il primo libro di Ungaretti. A giudizio della critica la raccolta che seppe meglio intendere ed esprimere il grande dramma degli uomini della trincea, ne raccolse le emozioni più profonde, i sentimenti più nobili, e seppe dare voce di poesia al loro dolore, alle loro speranze, alla loro ansia di redenzione e di rigenerazione.
“Il Porto sepolto” è unanimemente giudicato come il libro che ha rinnovato la poesia italiana e le sue liriche sono considerate degne della migliore tradizione europea. Motivi, questi, più che sufficienti per meritare l’omaggio della memoria civica alla tipografia di via di Prampero che, stampando “Il Porto sepolto”, ha collocato Udine nelle più alte esperienze della letteratura del Novecento.

Perché “Il Porto sepolto”
A chi domandava la spiegazione di questo titolo, che assai poco si prestava per un libro di poesie della guerra, delle trincee fangose e putrescenti, Ungaretti rispondeva rimandando agli anni della sua formazione spirituale, gli anni incantati di Alessandria d’Egitto, dove la sua famiglia era emigrata dalla Lucchesia: «Si vuole sapere perché la mia prima raccoltina s’intitolasse cosí. Verso i 16-17 anni, forse più tardi ho conosciuto due giovani ingegneri francesi, i fratelli Thuile, Jean ed Henry; entrambi scrivevano (...)
Quegli amici avevano ereditato dal padre una biblioteca raccolta con precisione di curiosità e di gusto, una biblioteca romantica che essi avevano arricchito con opere dei poeti e degli scrittori contemporanei. Mi parlavano di un porto, di un porto sommerso che doveva precedere l’epoca tolemaica, provando che Alessandria era un porto già prima di Alessandro. Non se ne sa nulla. Quella mia città si consuma e s’annienta d’attimo in attimo. Il titolo del mio libro deriva da quel porto».
“Il Porto sepolto” s’intitola anche la breve poesia che Ungaretti compose a Mariano il 29 giugno 1916 e inserí tra le prime nella sua raccolta: «Vi arriva il poeta/ e poi torna alla luce con i suoi canti/e li disperde/ Di questa poesia / mi resta /quel nulla/ d’inesauribile segreto».
Per Carlo Ossola, lo studioso più accreditato del poeta Ungaretti, “Il Porto sepolto” è «coagulo mitico che contiene in nuce i simboli e le matrici figurali dell’intero percorso ungarettiano»; designa, tutt’insieme, «il luogo delle profondità affioranti e perdute, segno e abisso, ricettacolo incontaminato di ricordi d’infanzia e di civiltà favolose, approdo dopo tappe e arsure di deserto, e insieme ultima discesa d’Orfeo».
La genesi della silloge
La storia del “Porto sepolto” in più occasioni, e anche in più modi, è stato lo stesso Ungaretti a rievocarla, che ha così fissato il suo inizio: «Incomincio dal primo giorno della mia vita in trincea, e quel giorno era il giorno di Natale del 1915, e io ero nel Carso, sul Monte San Michele. Ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio armato di noi. Nelle trincee, quasi sempre nelle stesse trincee, perché siamo rimasti sul San Michele anche nel periodo di riposo, per un anno si svolsero i combattimenti. Il “Porto sepolto” racchiude l’esperienza di quell’anno».
Il libro dell’anno 1916
Se, come scrive il poeta, questa silloge ha preso inizio nel giorno di Natale del 1915 - e tutto fa pensare che quella data, il giorno della Natività e della Grande speranza, così densa di significati propiziatori, sia stata scelta da Ungaretti con il deliberato disegno di sottolineare il valore dell’opera alla quale si accingeva - è stato l’anno 1916, il secondo anno della guerra italiana, a dare alimento e occasioni per quello straordinario - sotto ogni punto di vista - diluvio di poesia che traboccava dal cuore del giovane fante.
È la terribile esperienza quotidiana della vita e della morte, della vita vissuta e ancor più sperata, e della morte ossessivamente presente, che come a volergli fare un dono espiatorio di tanto dolore, reca ad Ungaretti le parole per fissare l’irripetibile tumulto di emozioni e di sensazioni che riempivano il vivere quotidiano di ogni fante che riscattava la disperazione del fango e della pietraia lasciandosi avvolgere dalle albe luminose, affidandosi al conforto di immensi cieli trapuntati di stelle, specchiando nei paesaggi devastati la sua desolazione, ma anche ritrovando nei tanti che condividevano le sue pene quell’ansia di Vita Nuova che consentiva di resistere a una così tremenda tragedia.
Per queste e altre ragioni, “Il Porto sepolto” può correttamente essere letto come l’autobiografia di Ungaretti e come il rendiconto spirituale della generazione dei soldati dell’anno 1916. Dell’anno in cui finì per sempre la convinzione di una vicina fine della guerra e avanzava il presagio dell’eternità della trincea.
Di questa nuova condizione esistenziale, che anticipava tanto del senso del vivere del Novecento, Ungaretti era testimone e interprete.
Il libro che cambia la poesia
Vale ripeterlo: le trentadue poesie dell’anno 1916 nel dicembre venivano raccolte in qualcosa di assai simile a un fascicolo, che aveva come titolo “Il Porto sepolto”. «Fu stampato a Udine nel 1916, in edizione di 80 esemplari a cura di Ettore Serra.
La colpa fu tutta sua – ha scritto Ungaretti –. A dire il vero, quei foglietti, cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute… sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene dei capezzali nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico».
A dire il vero
È buona norma non prendere per oro colato le rievocazioni autobiografiche. L’attendibilità di queste operazioni di memoria merita sempre di essere verificata. Si tratta di una ricostruzione “a posteriori”, un ripensamento successivo che risponde a una manifestazione di modestia con la quale il poeta vuol consegnare alla storia la genesi del suo primo libro.
Che, stando alle sue parole, non era nelle sue intenzioni comporre. A dire il vero le cose sono andate assai diversamente. Del resto la coscienza del valore della sua opera ha sempre fatto parte del patrimonio spirituale di Ungaretti.
È stata una delle sue più sicure cifre distintive. Ed era già attiva quando nella putrescente fanghiglia del Carso coglieva ogni occasione per dare corpo al tumulto di sentimenti e pensieri che lo agitava.
E che le cose siano andate diversamente lo rivela la lettera che il 14 luglio del 1916 Ungaretti scriveva all’amico Gherardo Marone che a Napoli dirigeva la rivista letteraria “Diana”: «Caro Marone, mi potreste dire, voi che vi intendete di cose tipografiche, il prezzo di un volume, formato della “Diana”, carta ordinaria, caratteri di questo corpo circa: “Il Porto sepolto”, un centinaio di copie numerate, un migliaio di versi? Sarebbe la raccolta delle mie cose che vorrei distribuire agli amici».
Il merito di Ettore Serra
Sicuramente attendibile in quella rievocazione è invece l’indicazione del nome di colui che rese possibile la pubblicazione: Serra appunto. Sappiamo che era un tenente, con attitudini al letterato. Sappiamo anche che proveniva da La Spezia, dove era nato nel 1890 e prestava servizio nel 19° Reggimento fanteria. Lo stesso al quale Ungaretti era stato assegnato.

A Versa nel marzo 1916
Il primo incontro tra Ungaretti e Serra avvenne a Versa nella primavera del 1916. Questo il ricordo di Serra: «Erano giorni tristi, soffusi di logorante malinconia, quelli. (…) Fu in quei giorni che m’incontrai a Versa, con Giuseppe Ungaretti, soldato semplice del 19° Reggimento fanteria. Il Reggimento era sceso a riposo da San Martino del Carso, e stava occupando i suoi accantonamenti nelle case e nei fienili».
Ero ormai un vecchio ufficiale «un veterano a venticinque anni. Un giorno mi trovai a passare per l’accantonamento di Ungaretti. Sull’aia erano i soldati che si fecero attenti e silenziosi, come i ragazzi in classe quando arriva il maestro.
Uno di quei figlioli mi incuriosì pel suo fare trasandato e disattento, per il disordine della tenuta e della persona. Passeggiava lentamente, con le mani in tasca, il berretto sbilenco, le scarpe sporche, godendosi quel po’ di sole, come una lucertola. Mentre consideravo la sua persona magra e dinoccolata, egli mi guardò, ma non si sognò neanche di salutarmi, e poi tornò a volgere lo sguardo su di me(nel suo viso affilato e stanco – non si capiva bene se d’angelo o di delinquente uscito dal carcere – brillava, sola cosa viva, la fredda fiamma azzurrina degli occhi) osservandomi con una insistenza che io giudicai improntitudine».
Sostiene Ettore Serra Il racconto di Serra prosegue così: «Che diavolo di soldato è cotesto?, pensai, e lo chiamai con la voglia matta di fargli un cicchettone. Si avvicinò cauto, sogguardandomi come un gatto che studi il modo di svignarsela. “Come vi chiamate?”. “Giuseppe Ungaretti”. “Di che paese siete?”. “Di Lucca... o meglio d’Alessandria d’Egitto”. “Oh bella! Io spero che tu non sarai venuto al mondo in due luoghi diversi”. «”Sono nato ad Alessandria d’Egitto, ma i miei sono di Lucca.
Ho vissuto in Francia, a Parigi. Sono venuto in Italia per la guerra”. Parlava calmo, pianamente, scandendo le sillabe, con voce dolce tenendo gli occhi bassi quasi attendesse un mio rimprovero. Col capo stanco un po’ reclinato, come di chi ha molto sofferto e mediti tra sé il suo dolore e sia pronto a soffrire ancora con rassegnazione. Dalla sua miseria io vidi allora trasparire una signorilità, una nobiltà che nessun fango cancella e rifulgono anzi di più gran lume. Come il fiore sul mucchio del letame, o gli occhi di una vergine nel buio fetido e pieno di tentazione».
«Rimanemmo in silenzio - è ancora il racconto di Serra - e mi ricordai allora di aver letto in “Lacerba” o in un almanacco de “La Voce” o altrove, alcune brevi delicate liriche, che avevo amato nei dolci tempi lontani. “Ma tu sei Ungaretti, l’amico di Soffici, di Cecchi, De Robertis?” “Sì, proprio, come mi conosce?”. Egli alzò allora gli occhi consolati e pieni di riconoscenza, quasi avesse trovato un fratello».
Da Versa a Udine In nove mesi nasce “Il Porto sepolto”. Per ogni parto che si rispetti il nostro ciclo biologico ha stabilito che ci vogliano nove mesi, non ci dobbiamo dunque meravigliare se, date alla mano, verifichiamo come dall’incontro di Versa alla pubblicazione siano passati proprio nove mesi che vedono Serra e Ungaretti incontrarsi in ogni occasione che si presentava. Serra ha capito che il fante «dagli occhi azzurri» è animato dal fuoco della poesia e dalle prove che gli vengono date, capisce subito che si tratta di grande poesia. Come ancora non gli era capitato di leggere.
A Versa l’arrivo del tenente Serra veniva presto associato all’incontro con Ungaretti. Leggiamo ancora una volta il ricordo del tenente spezzino: «Quando i soldati mi vedevano apparire correvano a cercare Ungaretti che era spesso sul fienile, nel suo luminoso e comodo studio, a scavare nell’anima qualche parola dolorosa. Egli scendeva per la lunga scala a pioli e andavamo insieme pei campi. (…)
Poi il Reggimento tornò sul San Michele e lo studio passò dal fienile di Versa alle caverne gocciolanti sotto la Sella di San Martino del Carso, o addirittura in trincea. Per leggere taluni dei suoi versi dimenticati facevano qualche volta insieme la strada dalla filanda di Sdràussina a San Martino, oltrepassando il cavalcavia della strada ferrata e seguendo l’erta sassosa e nuda. Fu allora che io decisi di essere l’editore di Ungaretti.
La notte ch’io portai con me sotto la collina di Medea le sue poesie e ch’io rilessi a una a una lentamente, al lume fioco di una lucerna, ebbi quasi la sensazione di avere attorno nell’ombra una schiera di dolci e povere bambine fuggite dal buio dell’Isonzo e scrissi al mattino una lettera d’innamorato a Ungaretti annunciandogli la mia decisione. Raccolte alla meglio le sue poesie, fu stampato nel dicembre del ’16 quel sobrio volumetto a Udine, sotto il Castello immenso».
Stabilimento tipografico L’operazione “Il Porto sepolto” approda a Udine ai primi del dicembre del 1916 e trova al numero 7 di via di Prampero la destinazione finale che trasforma quei brandelli di carte che Serra ha raccolto dalle mani di Ungaretti in un libro. Per realizzare la sua iniziativa Serra è certamente andato in cerca di una tipografia che gli garantisse la qualità del lavoro e che gli facesse un buon prezzo.
La trovò in quello Stabilimento tipografico friulano dove ogni giorno si stampava “Il Giornale di Udine”, un battagliero quotidiano impegnato nel sostegno della guerra. Delle vicende tipografiche che portarono alla stampa del libro di Ungaretti non sappiamo praticamente nulla, ma possiamo fondatamente immaginare che le cose siano andate così: da fine letterato, Serra deve aver seguito tutte le fasi della pubblicazione, che doveva essere sobria, ma non sciatta.
Per i caratteri insieme all’editore venne scelto il Bodoni, garanzia di eleganza e, considerate anche le ristrettezze del tempo di guerra, fu usata una carta piuttosto ruvida, che bene si prestava ad accogliere quelle poesie. In tutto ne furono tirati 80 esemplari.
Era stato Ungaretti a fissare il numero delle copie del suo libro, che intendeva inviare in omaggio agli amici, e così dalla tipografia di via di Prampero furono preparate le copie debitamente numerate e almeno altre cinque, senza numerazione, che erano destinate alla Procura in ottemperanza alla legge sulla stampa. Di queste una andava alla biblioteca cittadina, dove ancora si trova gelosamente protetta dal direttore Vecchiet, un’altra alla Biblioteca nazionale di Firenze, e una terza alla Biblioteca centrale di Roma.
Stando così le cose è altrettanto plausibile affermare che Ungaretti non abbia mai messo piede in via di Prampero. Del resto lasciare il fronte era molto difficile. Per non dire impossibile. Lo lascia intendere quello che Ungaretti scrive all’amico-confidente Papini il 5 dicembre 1916. «Forse presto esce il mio “Porto sepolto”. Si sta stampando, pare, a Udine, in edizione di 80 esemplari numerati. Un mio amico ha voluto raccogliere le mie cose di quest’anno di guerra.
Vedrai: è una cosa signorile: è certo il miglior libro: il più sincero, il più puro». Il 16 dicembre 1916 Una volta diventato libro stampato “Il Porto sepolto” risaliva a Versa, dove di nuovo il fante Ungaretti si trovava. Quel viaggio lo faceva al seguito di Ettore Serra che dalla tipografia si era fatto mettere le copie del libro in un pacco che avrebbe aperto con Ungaretti.
Questa scena si svolgeva il 16 dicembre, che cadeva di sabato. Così come per tutta la storia della sua genesi, anche per l’accoglienza che quel giorno Ungaretti fece a “Il Porto sepolto” esistono almeno due versioni riferite dallo stesso Serra: la prima, del 1923, è sicuramente quella più attendibile: «Quando il poeta vide il primo esemplare del libro, nitido e parco, esultò di gioia né più lo vidi poi contento come quel giorno».
L’altra, di molti anni più tarda, era passata attraverso il filtro della programmata biografia esemplare del poeta Ungaretti e quel genuino e vitale slancio di gioia aveva lasciato il posto a una più pensosa «ombra di tristezza».
Il loro incontro del 16 dicembre era suggellato con la dedica che Ungaretti vergava per l’amico su una copia: “Al poeta Ettore Serra offro questo nostro libro di cui il più gran merito per me è l’amore ch’egli gli ha dato con amore”. Al “gentile Ettore Serra”, ulteriore testimonianza del sentimento di riconoscenza che Ungaretti provava per lui, era dedicata la composizione “Poesia” che chiudeva “Il Porto sepolto”.
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