L’Italia abbatte il modello dell’uomo solo al comando. Ora si riparta dai territori

UDINE. L’Italia è ritornata ai blocchi di partenza di un paio d’anni fa, quando il voto europeo valutò il potenziale elettorale di Matteo Renzi più o meno come quello misurato dal referendum: 40 per cento. Un peso insufficiente per poter governare a modo suo, cioè dentro lo schema di “uomo solo al comando”, peraltro con le regole oggi esistenti.
Il Paese ha bocciato questo tipo di modello sartoriale imbastito su una premiership forte, ipotesi ritenuta poco adatta ai principi di democrazia parlamentare sanciti nella Costituzione.
Gli avversari gli hanno mosso contro una valanga di No, con dentro un po’ di tutto: dai timori per un’economia che arranca ai malesseri sociali alimentati da troppe disuguaglianze; dalla questione dei profughi alla rivolta nei confronti delle élite.
Il presidente del Consiglio ha personalizzato la sfida e ha perso. Bisogna però dargli atto che, con coerenza, ha tratto sino in fondo le conseguenze, senza cincischiare.
Si è dimesso subito con una decisione estrema, che da noi non è mai scontata: «Io non sono fatto per galleggiare, il mio Governo finisce qui». Ora il pallino è nelle mani del presidente Sergio Mattarella.
Un terremoto politico
Si potrebbero spalancare nuovi scenari. Molto dipenderà dalle regole che verranno scelte per andare al voto. Resta l’inghippo della “doppia fiducia” (Camera e Senato) che rappresenterà ancora una scarpa e uno zoccolo con evidenti problemi di governabilità.
Ovviamente, non c’è più tempo per riprendere in mano il bandolo della matassa delle riforme costituzionali. Si potrà intervenire soltanto riformulando la legge elettorale, che è la madre di tutte le battaglie perché influenzerà la composizione delle alleanze.
Che cosa resterà dell’Italicum? Ci sarà la salvaguardia del principio maggioritario, in modo da garantire condizioni minime di stabilità al Paese? Oppure si sceglierà un percorso rigidamente proporzionale con tutti i rischi che ne conseguiranno? E si manterranno due sistemi distinti alla Camera e al Senato? Sono in agguato situazioni precarie già viste.
Questo è ancora uno dei nodi più aggrovigliati da districare con pazienza per capire quali saranno le possibilità di aggregazione attorno ai tre grandi schieramenti.
Le decisioni non incideranno tanto sui destini del M5s, che è un monolite (nonostante le conflittualità interne) manovrato direttamente da Beppe Grillo, il quale continua imperterrito a dettare i ritmi e le strategie di ogni sfida, quanto su quelli fragili sia del centrosinistra che del centrodestra, all’interno dei quali si muovono interessi contrastanti.
E in merito a guai strutturali, questi ultimi due poli, pari sono. Come si nota, restano aperte tante domande che troveranno risposta soltanto nel tempo.
Destini incrociati
Renzi, seppure sconfitto, manterrà un peso enorme nel suo partito. Senza di lui il centrosinistra sarebbe spacciato, praticamente fuori mercato. Ma ha margini di manovra limitati per cercare di mettere assieme i cocci di un Pd devastato dalle lotte intestine.
In fin dei conti, viviamo in diretta la crisi profonda dell’ultimo partito a impronta Novecentesca: sono sotto pressione le anime storiche, le vecchie articolazioni ideologiche, la visione stessa della società. Per vincere la sfida con se stesso, il Pd ha bisogno di una profonda rivisitazione.
Come agirà l’ex premier dopo la batosta subita? Manterrà il suo solito atteggiamento “pigliatutto”, oppure aprirà la porta alle mediazioni che sono necessarie nella vita di un partito democratico (di nome e di fatto)? Soltanto il dialogo potrà evitare che la rottura tra “renziani” e “bersaniani” porti alla scissione, quindi alla nascita di una Sinistra oltre il Pd.
Le posizioni sono sempre più inconciliabili, soprattutto dopo lo scontro referendario. La riunificazione dipenderà molto dalle scelte del nuovo Governo, sia sotto il profilo della leadership che del programma, e ancora di più dal tipo di legge elettorale.
Il proporzionale accentuerebbe le difficoltà di ricucitura dello strappo: ognuno potrebbe trovare più conveniente cercare voti senza eccessivi compromessi sull’identità politica. Avrebbe cioè le mani libere. Poi, ai tempi supplementari, potrebbe esserci lo spazio per costruire la coalizione. Storie già viste nel corso della Prima repubblica.
Sull’altro versante, Silvio Berlusconi vive le stesse difficoltà nel rapporto con Matteo Salvini. Chi sarà il candidato premier del centrodestra? E’ palpabile l’insofferenza dei moderati nei confronti delle strategie populiste della Lega: contro l’euro, contro la Ue, rigorosamente anti-profughi, senza un respiro in grado di abbracciare l’intero Paese.
Posizioni che mal si conciliano con la rigenerazione di Forza Italia in una prospettiva di governo. Ecco perché gli interessi di Berlusconi potrebbero coincidere con quelli di Renzi: spesso si fiutano e si capiscono, talvolta si tradiscono. Ma i due hanno mantenuto canali di dialogo. Sulla legge elettorale non sono esclusi punti di contatto utili a entrambi.
Che cosa accadrà in Fvg?
Su pochi Comuni sventola il vessillo del Sì. La nostra regione non è proprio a macchie di leopardo, perché il No si è dispiegato pressoché omogeneamente sull’intero territorio.
Ci sono soltanto minuscoli punti di colore diverso. Poca roba, quasi insignificante, per lo più concentrata in piccoli municipi di montagna. Il voto di domenica conferma lo schiaffo a un Pd già ridimensionato. Fa ancora male la sconfitta rimediata a Monfalcone, città-simbolo della Sinistra.
Rimbalzano i rancori raccolti da alcuni giornalisti che si sono precipitati ai cancelli della Fincantieri per capire il voltafaccia elettorale.
Meno di un mese fa è stata premiata la candidata di centrodestra: «Non ci fidiamo più di una sinistra finta - hanno dichiarato alcuni operai - che ignora le fasce deboli della popolazione, che mangia con i padroni e non ha tempo di parlare con i lavoratori. Tanto vale votare gli altri».
Ecco il punto della crisi identitaria: il Pd ha dimenticato il suo “popolo”, incagliandosi in un’attività autoreferenziale. Anzi, il partito non c’è proprio più, si è appiattito sul suo gruppo renziano, guidato da Debora Serracchiani.
Così è stata imbrigliata l’elaborazione di idee e proposte. Che ne sarà del Pd? Non basterà sacrificare qualche capro espiatorio per mettersi il cuore in pace. Dovrebbe invece tornare a essere espressione dei territori. E gli amministratori locali potrebbero garantire la svolta.
La resa dei conti
Entriamo in un lungo periodo che sarà caratterizzato inevitabilmente da poco governo e da tanta lotta “armata”. Allacciamoci le cinture di sicurezza. Speriamo solo che i cittadini non debbano subire le frustrazioni da sconfitta. Gli sguardi interessati saranno puntati su Roma per cogliere ogni segnale.
Ma in Friuli Venezia Giulia la situazione sarà ancora più avvelenata. Mentre il Paese avrà un altro premier, in Regione continuerà legittimamente l’azione del governo Serracchiani, d’altra parte lei è forte di un’investitura popolare: nessuno può chiederle di lasciare.
A livello istituzionale, la presidente ha una maggioranza solida, ma non altrettanto a livello territoriale, dove la situazione politica è cambiata. Ha perso, una dopo l’altra, le città dove aveva costruito la vittoria nel 2013. Per tentare un disperato recupero dovrà metterci tanta capacità di ascolto.
Non sarà semplice, perché lei vorrebbe conservare le due cariche: Trieste (che ormai rappresenta soltanto il presente) e Roma (che potrebbe costituire una prospettiva per il futuro). La sua sconfitta ha già ringalluzzito i contestatori rimasti sottotraccia.
Dovrà vedersela con alcune schegge impazzite alla ricerca di visibilità e di spazi di potere. E la prima contestazione riguarda proprio il mantenimento della vicesegreteria nazionale: «Basta, abbia cura del Friuli, siamo tutti sulla stessa barca». Di fatto, in Italia, il doppio incarico è rarissimo. E non paga mai.
Dai “no” alla proposta
Su Serracchiani, al pari di Renzi, si è scaricata la rivolta contro l’establishment. Ogni ricorso alle urne contiene la voglia di impallinare chiunque, senza porsi troppe domande: «Mandiamoli a casa».
Il voto “contro” ha premiato l’opposizione, sia di centrodestra che del M5s. In realtà, questo meccanismo di estrema semplificazione dimostra di pagare nella raccolta dei consensi elettorali, ma non garantisce un’azione concreta di governo.
All’opposizione mancano i fondamentali di una leadership affidabile e di un progetto avvincente. I grillini si affideranno alla Rete procedendo lungo un percorso ormai collaudato.
Hanno un “marchio di fabbrica” che dà visibilità, il resto è lasciato alla buona sorte (nella scelta dei candidati) e alla situazione politica del momento (più è ingarbugliata, più pescano nel malcontento).
Il M5s uscirà quindi alla distanza. Nel centrodestra rimane invece aperto un dilemma, che non è secondario alla costruzione dell’alternativa in Regione: una alleanza a trazione leghista o moderata? È una scelta che divide. E quando lo schieramento si incarta è capace di perdere elezioni già vinte.
Il pallino è nelle mani dei dirigenti nazionali. Almeno una cosa però è chiara: il sistema elettorale regionale è maggioritario, quindi impone la scelta delle alleanze prima del voto. Per fortuna, le regole garantiscono una buona dose di stabilità. Nonostante tutto.
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