L'inchiesta sulla tragica morte di Giulio Regeni: il giallo di quei due minuti in cui è sparito

Cellulare acceso fino alle 20.23 e irraggiungibile dalle 20.25. Pc e ricerche consegnati dai genitori agli inquirenti italiani

UDINE. Due minuti di vuoto in cui il cellulare di Giulio Regeni da raggiungibile si è spento. Per sempre e non è ancora stato ritrovato. Un sottile lasso di tempo in cui il ricercatore friulano, con ogni probabilità, è stato sequestrato – se non arrestato – dai suoi aguzzini che poi lo hanno torturato per giorni prima di ucciderlo.

Quei due minuti che potrebbero spiegare tante cose, dalle 20.23 alle 20.25 di quel “maledetto” 25 gennaio, intercorsi tra la penultima e l’ultima telefonata di Gennaro Gervasio al cellulare di Regeni, come ha spiegato ieri in Commissione Esteri alla Camera il sottosegretario Benedetto Della Vedova.

È toccato a lui, rispondendo alle interrogazioni dei parlamentari, ricostruire le ore, così come trasmesse alla Farnesina dall’Ambasciata italiana, di Regeni prima della scomparsa. Della Vedova ha spiegato che il giovane era atteso per cena da alcuni amici in un ristorante della capitale, ma non ci è mai arrivato. Tra chi lo aspettava c’era Gennaro Gervasio, docente di scienze politiche all’università britannica del Cairo che non vedendolo arrivare si è allarmato.

Il professore, infatti, lo aveva sentito telefonicamente attorno alle 19.40 e Regeni gli aveva spiegato che sarebbe uscito di casa verso le 20 per avviarsi alla stazione delle metropolitana di Bohooth – distante pochi minuti a piedi dalla sua abitazione nel quartiere di Dokki – per scendere a Mohamed Naguib considerato che quella di Sadat, a due passi da piazza Tahrir, era stata sigillata dalla polizia egiziana che temeva manifestazioni di protesta in occasione del quinto anniversario della rivoluzione che depose Hosni Mubarak.

Gervasio, però, non lo vede arrivare. Prova a contattarlo, ripetutamente, al telefono tra le 20.18 e le 20.23. Il cellulare suona, ma Regeni non risponde. Il professore ritenta, di nuovo, due minuti dopo, ma il telefonino questa volta risulta staccato.

L’amico non si arrende, chiama ancora, ma ottiene come risposta soltanto quella di una voce registrata in arabo che ripete la stessa litania: l’utente non è al momento raggiungibile. Passano un paio d’ore e Gervasio, decisamente preoccupato, contatta l’Ambasciata italiana al Cairo per lanciare l’allarme.

Una ricostruzione, quella trasmessa a Montecitorio da Della Vedova, che combacia con le informazioni in mano agli inquirenti italiani giunti venerdì scorso in Egitto. La società telefonica che gestiva la linea egiziana del dottorando, infatti, ha comunicato alla Procura di Giza, che indaga sull’omicidio, che il telefonino di Regeni è stato agganciato per l’ultima volta a una cella nel quartiere di Dokki, nelle vicinanze dell’appartamento in cui viveva.

Ed è stato lo stesso procuratore capo di Giza Ahmed Nagy a spiegare come ci siano in corso «operazioni di indagine per sapere quali siano state le chiamate fatte e ricevute» dal ricercatore friulano.

Gli egiziani lavoreranno sulla linea telefonica locale, dunque, mentre saranno gli investigatori italiani – che ieri hanno trasmesso la prima informativa al pm romano Sergio Colaiocco che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario contro ignoti – a esaminare il pc di Regeni.

Sono stati i genitori del ragazzo, infatti, a recuperarlo nell’appartamento, assieme alle ricerche egiziane e ai vestiti del ragazzo, e a consegnarlo agli inquirenti del nostro Paese perché ne analizzino il contenuto ed eventuali connessioni utili ai fini dell’indagine in entrambi i Paesi. Ieri il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha ribadito di contare sul fatto che «i nostri operatori in Egitto possano effettivamente partecipare alle indagini e all’individuazione dei colpevoli».

Una collaborazione che però, pare non decollare, con gli egiziani che si sono limitati ad annunciare di attendere gli esiti degli esami sui campioni prelevati sul corpo di Regeni per individuare eventuale dna esterno all’italiano e a continuare a negare il coinvolgimento degli apparati di sicurezza nell’omicidio.

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