L'inchiesta su Banca di Vicenza: "Pressioni e minacce per collocare le azioni"

VICENZA. Più che un investimento, quello che Banca Popolare di Vicenza propose ai suoi clienti nel 2014, fu una trappola finanziaria fatta scattare dopo aver messo in atto una serie di strategie di attrazione.
Questo perlomeno emerge dalle ricostruzioni contenute nella relazione ispettiva della Consob alla Bpvi del 25 febbraio 2016, acquisita agli atti dalla Procura nell’ambito dell’inchiesta sul tracollo dell’istituto di credito. Oltre 360 pagine firmate da un team di sette ispettori che hanno passato al setaccio l’attività della banca tra il gennaio 2014 e l’aprile del 2015, analizzando anche le mail dei dirigenti: un documento che è servito agli inquirenti vicentini per ricostruire cause e responsabilità del maxi-dissesto. E che oggi potrebbe servire a quei risparmiatori solitamente prudenti per capire come mai si siano trovati a investire i loro soldi, o una parte di essi, in azioni diventate carta straccia.
La Consob ricostruisce la stagione degli aumenti di capitale, quell’urgenza di trovare nuovi soci che si tradusse in pressioni fortissime su clienti e dipendenti per collocare le azioni, in controlli saltati, in profili rischio modificati all’ultimo per trasformare in spregiudicati investitori anche chi avrebbe comprato al massimo titoli di Stato, nell’imposizione dell’acquisto di azioni BpVi per chi aveva ottenuto un fido.
Gli obiettivi commerciali. Gli ispettori storcono il naso di fronte alla pianificazione commerciale tanto da parlare di «obiettivi commerciali non solo particolarmente sfidanti, ma anche definiti in base a logiche estranee alle esigenze finanziarie della clientela». Consob rileva quindi «fattori di criticità connessi alle modalità con le quali è stato perseguito l’interesse strategico al raggiungimento degli obiettivi di collocamento dei titoli azionari emessi in sede di aumento di capitale».
Le liste-clienti. Perplessità suscitano le liste di clienti, tre in tutto quelle portate alla luce, contenenti oltre 51 mila nominativi: si trattava di clienti (soci e non) da contattare per l’aumento di capitale. Il fatto è che, scrivono gli ispettori, «l’unico criterio di selezione degli investitori inseriti in talli liste è quello della consistenza delle rispettive fonti finanziarie». Consob non nasconde i suoi dubbi neppure sull’“applicativo informatico” dedicato alla raccolta delle intenzioni si sottoscrizione manifestate dagli investitori prima dell’avvio del periodo di offerta; raccolta fatta in modo talmente riservato da non essere comunicata neppure all’Autorità di Vigilanza.
Le pressioni. Gli ispettori rilevano come nel corso dell’aumento di capitale 2014 «sia stata realizzata una pervasiva azione commerciale che ha comportato anche l’esercizio di forti pressioni per la sottoscrizione di azioni della Banca».
I soci, continua Consob, sono stati destinatari di campagne massive: importante era collocare l’azione anche a dispetto della procedura fondata su controlli e adeguatezza dell’investimento. Con riferimento all’aumento di capitale e del mini aumento del 2014, sostengono gli ispettori, la Banca non ha fatto uso «del sistema ordinario di valutazione dell’adeguatezza». Il modello ordinario è stato oggetto di correttivi serviti a porre criteri meno restrittivi per il superamento dei test.
I profili ritoccati. Gli aumenti di capitale sono stati preceduti da una campagna di aggiornamento dei questionari Mifid con un diffuso upgrading degli stessi. «La campagna ha avuto in realtà l’obiettivo di adeguare i questionari dei clienti non azionisti individuati come potenziali aderenti, elevandone i parametri a livelli compatibili con l’operazione», scrivono gli ispettori, «In occasione dell’aggiornamento, la Banca ha in effetti proceduto a riprofilare i clienti target in modo strumentale al superamento dei controlli di adeguatezza». Su un totale di 3.611 profili analizzati, il 79% ha subìto una riprofilatura strumentale al superamento dei controlli di adeguatezza nel periodo tra il 18 marzo e la data di adesione.
Obbligo del 10% e le minacce ai dipendenti. È probabilmente con il meccanismo dei fidi concessi ai clienti subordinatamente all’acquisto di azioni BpVi, che la Banca espone i risparmiatori, ma anche i dipendenti, alle maggiori pressioni. Gli ispettori Consob, esaminando la posta elettronica dei dirigenti dell’istituto di credito, hanno scoperto che esisteva addirittura l’ “ordine” del 10%. «La Direzione Generale», si legge nella relazione, «ha fatto pressione sulla rete e sui clienti affinché ogni Direzione Regionale garantisse al proprio interno un rapporto tra patrimonio sociale e impieghi pari al 10%».
In pratica, spiegano, in base alle direttive diffuse, tutti i clienti affidati dovevano detenere una partecipazione azionaria di valore corrispondente al 10% all’importo del fido. Il fenomeno delle “baciate” risale nel tempo, dicono alla Consob, addirittura al 2009.
Ma è solo nell’ultimo periodo che «l’acquisto di azioni Bpvi ha cominciato ad assumere, per esplicite direttive dell’alta dirigenza, la connotazione dell’obbligo in capo a tutti i clienti a qualsiasi titoli finanziati, di investire almeno il 10% delle somme prestate dalla Banca in azioni della stessa».
Il finanziamento strumentale all’acquisto di azioni è stato accompagnato da fenomeni collaterali come le lettere di garanzia e gli storni. In una prima fase il dg Sorato e il responsabile Divisione Mercati Giustini hanno curato direttamente le operazioni, poi «nel 2013-2014 è stato registrato un coinvolgimento attivo di tutte le strutture commerciali centrali e periferiche, fino ai responsabili delle direzioni regionali e delle aree territoriali.
Tale coinvolgimento è stato assistito da garanzie di “copertura” dai vertici della Banca e da pressioni e minacce su quanti non si adeguavano al modus operandi o non raggiungevano gli obiettivi».
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