Libano, quei bravi ragazzi raccontati dalla Fallaci

Pordenone. Partirono ragazzini, tornarono uomini. Si sono ritrovati trentatrè anni dopo. Le loro vite descritte in “Insciallah”. Ora anche loro scriveranno un libro

PORDENONE. «Armi in pugno, caricatore pronto. Qui siamo in guerra ragazzi!».

Fu un ordine secco quello che arrivò come una fucilata alle orecchie di un battaglione di soldati, ragazzi di leva di 18 e 19 anni ancora disorientati dal viaggio, man mano che scendevano dalla scaletta del C 130 appena atterrato sul suolo di Beirut. Era il 22 ottobre 1983.

Il giorno prima i giovani bersaglieri del “Caprera” erano partiti da Orcenico per Italcon, la prima missione di peacekeeping italiana oltreconfine, dopo il massacro di agosto nei campi palestinesi di Sabra e Chatila.

Le foto sbiadite dal tempo, scattate nel buio dell’abitacolo del velivolo, restituiscono i loro volti poco più che bambini, ancora ignari di quello che sarebbe toccato loro in quattro mesi di missione.

Circolavano fra i tavoli della cena Da Fernando che li ha visti radunati esattamente trentatrè anni dopo, il 22 ottobre 2016, proprio davanti la caserma Leccis di Orcenico, con i due comandanti, gli allora capitano Fernando Fazzina e tenente Emanuele Biondini.

«Manca nessuno?» grida qualcuno eccitato. «Sì, la Fallaci!» gli risponde una voce squillante. Sì, perché sono proprio loro i ragazzi intervistati e descritti magistralmente in “Insciallah” da Oriana Fallaci.

C’è Antonio Cipolla, “Cipolla il casertano”, come lo aveva chiamato lei per via delle sue origini, che nel libro non voleva staccarsi dal posto di guardia, sulla fossa comune, «perché stare coi morti lo aiutava a diventare uomo».

C’è Roberto Goffi, lo studente torinese che Oriana chiamò “il Nazzareno”, per via dell’aspetto un po’ da Cristo che, dopo tutto questo tempo, ancora conserva.

C’è Giuseppe Carlo Riva di Treviso, che la notte del 24 dicembre si trovò con i compagni e il capitano Zaffina di pattuglia attorno alle postazioni del campo di Chatila, di cui una era stata lasciata scoperta dai francesi della Legione Straniera.

«Eravamo tra il fuoco degli uomini di Hamal e le milizie - ricorda con emozione - e il capitano fu il nostro eroe perché quella volta ci salvò, ci portò a casa tutti. Volevano le nostre armi e lui si trovò più volte con il fucile puntato alla fronte o sul petto. La jeep era stata sforacchiata lateralmente da una raffica di mitra. Non cedette».

«Se avevo paura - risponde il capitano Fazzina, ora colonnello a riposo, passandosi una mano sul viso come a rivivere l’angoscia di quei momenti -? Certo che sì! Ero partito con loro, avevo 29 anni e una bambina di 3 ed era la prima volta che capitavamo in uno scenario di guerra così. Erano soldati di leva, eppure, e lo dico con cognizione, non avevano nulla da invidiare ai militari che partono in missione adesso».

Un filmato viene proiettato durante la serata, una pellicola in super 8 che riprende alcuni momenti del campo. Ogni volta che si affaccia un primo piano, sono urla felici verso chi è riconosciuto. C’è Walter Faustini, così ragazzino in quella mimetica mentre gioca con il cucciolone bianco Falco, la mascotte del campo.

«Me lo portavo in sacco a pelo, dormivamo assieme» dice timidamente. Quando è partito ha dovuto lasciarlo là, non sa che fine abbia fatto. Le foto che vengono passate di mano in mano mostrano volti sempre più seri, di fanciullezza non ce n’è più, è svanita tutta.

«C’era ancora un odore terribile che aleggiava per aria - ricorda l’allora tenente Biondini, oggi colonnello in servizio -. Il massacro del campo palestinese fu fatto in agosto».

Era un pomeriggio di ottobre quando arivarono. Il tempo di raggiungere il campo, dormire in un sacco a pelo e sentire la mattina un botto, anzi due: gli attentati al quartier generale francese e quello americano.

Squadra formate in pochi minuti ed ecco i giovani bersaglieri sulle macerie, a estrarre ciò che restava dei loro colleghi francesi e americani. Erano poco più che bambini, bastarono 24 ore a farli diventare uomini vissuti.

Oggi stanno raccogliendo le testimonianze, ne faranno un libro di questa storia. E anche un romanzo, che sta scrivendo Massimo Rosai.

«Meritavate più considerazione dall’Italia - ha chiosato Biondini alla fine della serata –. Resta una soddisfazione: alla Difesa, a Roma, ci sono fascicoli dove è scritto “Lezioni apprese dal Libano”. Siate orgogliosi: le basi per le seguenti missioni all’estero le abbiamo gettate noi».

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