La tuta di Edi Orioli all'asta per gli ospedali lombardi, il signore del deserto: "Tornerà presto il sole"

Parola del signore del deserto, Edi Orioli, che oggi è un imprenditore di successo. Assieme al fratello Dino guida Pratic, a Fagagna, con quattro Parigi-Dakar in bacheca, quelle vere, a motori e intuito, non a gps, alta tecnologia e percorsi improbabili che spesso, col deserto africano, nulla hanno a che fare. Tra economia, motori, nostalgia dei Tuareg e solidarietà, con lui si va ancora a trecento allora

«In queste settimane di lockdown mi ha impressionato l’assenza di rumore. Le poche macchine in giro, la gente che sta a casa. Più che mai mi è mancato il deserto, il rumore del silenzio tra le dune. Perchè lì, dove tutto è silenzio, se ne sente il rumore».

Parola del signore del deserto, Edi Orioli, che oggi è un imprenditore di successo. Assieme al fratello Dino guida Pratic, a Fagagna, con quattro Parigi-Dakar in bacheca, quelle vere, a motori e intuito, non a gps, alta tecnologia e percorsi improbabili che spesso, col deserto africano, nulla hanno a che fare. Tra economia, motori, nostalgia dei Tuareg e solidarietà, con lui si va ancora a trecento allora.

Vero Orioli?
«Sì, anche se la tragedia che ci ha investiti spero abbia fatto capire a molti che la vita non può essere sempre vissuta a trecento all’ora contro tutto e tutti. Spero che qusta pandemia alla fine non lasci solo macerie, ma regali a questo mondo una grande razione di umanità».

Cosa le manca di più?
«Il rombo della mia moto, le uscite sulle strade del Friuli, la quotidianità della mia vita. L’azienda, le commesse. Finirà presto spero, quando ci daranno il via libera a riprenderci le nostre vite, intanto sosteniamo chi sta lavorando da settimane in prima linea, i medici e gli infermieri, artefici di un lavoro straordinario».

Alla Pratic avete dovuto fare i conti prima di altri con l’emergenza.
«Sì, siamo chiusi dal 10 marzo. Un dipendente era stato contagiato, per fortuna ora sta bene e tutto si è risolto per il meglio. Abbiamo 240 persone che lavorano per noi, alcune sono stagionali perchè questi sono proprio i mesi d’oro per la produzione di tende per esterni. Aspettiamo solo che ci diano il via libera per tornare a lavorare.
Intanto abbiamo cercato di aiutare chi sta peggio».

Come?
«Abbiamo fatto una donazione per l’acquisto di due letti per il reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Udine (roba da 30 mila euro o giù di lì ndr) e abbiamo sensibilizzato i nostri colleghi udinesi iscritti a Confapi affinché facciano altrettanto. Adesso penseremo a risollevarci».

Cosa la preoccupa?
«La burocrazia. La solita burocrazia. Per prima cosa deve venire la salute in qusto momento, è pacifico, ma qui lo Stato sta complicando le cose. Nulla è charo. Nulla, salvo una cosa: i datori di lavoro saranno responsabili se uno si ammalerà di coronavirus in azienda. Dovremo provvedere ad assicurare mascherine, gel, distanze di sicurezza, misuratori di temperatura. E se uno si contagia dal fruttivendolo o dal benzinaio? Vogliamo avere date certe, possibilmente non con un video su Fb del Premier il 4 maggio sera. Comunque guardiamo avanti, abbiamo perso due mesi di produzione, quelli fondamentali per le tende da sole. È come se una località sciistica di montagna chiudesse gli impianti a dicembre e gennaio. Un anno fa abbiamo fatturato 43 milioni, quest’anno vedremo».

Ci attende un disastro economico?
«Ci sarà grande difficoltà, ma anche grande euforia tra la gente c’è voglia di ripartire. Questo aiuterà la ripresa. E poi, sono sincero, pensando alla mia azienda, se i locali pubblici dovranno mantenere le distanze avranno forse la necessità di allargare gli spazi coperti all’esterno. Ora, però, la cosa più importante è che l’emergenza sanitaria si risolva».

Migliaia di motociclisti fremono, sono fermi al palo...
«Li capisco, mordo il freno anch’io. L’importante è che, quando si potrà ripartire, si guidi con prudenza senza farsi prendere dalla frenesia. La vita è una sola e se questa emeregenza qualcosa ci ha insegnato è proprio questo. Tornando alla moto, questa è la stagione buona per andarci. E anche l’occasione: lo sport motociclistico non crea certo assembramenti, insomma, direi che potrebbe ottenere l’atteso via libera».

Ha avuto tempo per ripensare alle sue imprese in queste settimane?
«Intanto ho fatto un lavoro pazzesco. Con mia moglie Paola, e le mie figlie Carolina e Anna, che ora hanno 29 e 26 anni e all’epoca dei miei trionfi quasi non erano nate, ho sistemato 10 mila fotografie. Sono riemersi ricordi pazzeschi. Grazie alle mie figlie su Instagram ne ho pubblicate alcune, è stato emozionante rivedermi con la barba lunga alla 12 ore di Lignano, al Rally dei Faraoni o sulle dune della Dakar».

Ha ripensato al deserto?
«Molto. Mi è improvvisamente mancata la libertà di camminare a piedi nudi tra le dune, sentiore “il rumore” del deserto, una cosa che puoi capire solo se ci vai».

Edi, regali ai nostri lettori, nostalgici della moto, un aneddoto...
«Ne ho a centinaia ma... Quel giorno ve lo racconto. Edizione 1990, deserto del Tenerè, “Il” deserto. Tappa di 850 km, a un certo punto ci perdiamo tutti. Io mi oriento subito, i miei rivali aspettano solo che io mi muova per seguirmi: fingo un incidente meccanico, mi fermo, aspetto, li lascio andare e via a “fuoco”.Trovo subito la pista, piombo a 200 all’ora ad Agadez, la città dei Tuareg. Il sole tipo palla di fuoco davanti a me, mi sembra ancora di vederlo. Ero partito alle 10 del mattino, oltre sette ore in moto fatti salvi gli stop per il rifornimeneto. Il mio team manager mi corre incontro e mi dice: “Una tappa epica, hai fatto come Fausto Coppi tra le nevi dello Stelvio al Giro del 1953”. Indimenticabile. Pochi giorni dopo vinco la seconda delle mie quattro Dakar».

Tornerà nel deserto?
«Ne ho corse 19 di Dakar, basta così. Però se mi offrissero un’auto veloce e un bell’ingaggio, chissà...».

La cosa che l’ha impressionata di più in queste settimane?
«Quelle terapie intensive piene di dolore, ma anche di voglia di vivere. E il lavoro di medici e infermieri».
Il primo giro in moto dopo la libertà?
«Sappada, dolomiti, Cortina e ritorno. Ovviamente con prudenza». E con la palla di fuoco del sole negli occhi, come trent’anni fa i

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