La storia di Sandra e della sua passione per le cipolle rosse: le coltiva a Cavasso e "tramanda il mestiere" alle figlie

Chi avrebbe mai detto che con le cipolle si potessero sviluppare lavoro e reddito? Pian piano le attività si sono allargate al territorio collinare compreso fra i torrenti Meduna e Cosa. Per cogliere la portata del fenomeno, che ruota attorno a quello che era considerato il companatico dei contadini poveri, è sufficiente un colpo d’occhio sul tabellone in alluminio piantato in un angolo strategico della piazza di Cavasso Nuovo.
Lì c’è in bella mostra la storia non di una cipolla qualsiasi, ma di quella “rossa”, orgoglio di un paese di poco più di mille 500 abitanti, che si allunga sulle prime alture della pedemontana pordenonese. Quella grande bacheca contiene il manifesto di un’identità ritrovata, con una lista di nomi e indirizzi che dà visibilità a una quindicina di produttori: alcuni si limitano ad arrotondare i bilanci, altri sono diventati piccoli imprenditori agricoli alla guida di aziendine che coinvolgono intere famiglie.
Fino agli Anni 60, la cipolla si coltivava negli orti, accanto alle case, per autoconsumo o per movimentare piccoli affari. Successivamente, il forte richiamo del lavoro nelle fabbriche causò l’abbandono dei campi, soprattutto quelli sulle alture, più faticosi da gestire. Le aree industriali di Maniago e di Spilimbergo costituirono una potente calamita nel periodo del boom economico, in grado di attirare risorse di ogni tipo. Fu smarrita così la tradizione della cipolla.
La rivincita della terra. Da un po’ di tempo si registra il rilancio di un’agricoltura diversa dal passato, di alta qualità e ricca di innovazione. Grazie all’istituzione di alcuni presidi Slow Food sono state riscoperte le coltivazioni sane di una volta, quelle che arricchiscono la biodiversità di un territorio e l’identità di piccoli paesi. Sono nati dei veri e propri distretti agricoli, a forte specializzazione colturale.
La cipolla rientra pienamente in queste nuove pratiche. Nella pedemontana del Friuli Occidentale viene coltivata in una duplice versione: quella quella di colore rosso, nelle aree verso il Meduna, e quella di colore rosa, in quelle della Val Cosa, in particolare a Castelnovo. Sono due varietà che esaltano i sapori e i profumi di terre difficili, ma piene di fascino. Le differenze si notano osservando le sfumature della “tunica”; il cuore del bulbo però è abbastanza simile: croccante e dolce.
Per coglierne la fragranza, il consiglio è di mangiare la cipolla cruda. Non fa lacrimare, né lascia tracce imbarazzanti nell’alito: si può baciare intensamente, senza rischiare respingimenti. «Mangiatene a volontà e poi fate tranquillamente l’amore», azzarda Stefano Di Michiel, giusto per rompere il ghiaccio di un racconto familiare.
Sostiene convinto l’azienda avviata qualche anno fa dalla moglie, Sandra Carusone, che ha deciso così di sfruttare a pieno regime i terreni a disposizione, dopo aver fiutato l’opportunità di creare lavoro e reddito, senza improvvisare nulla perché entrambe le famiglie di origine sono in gran parte segnate dalla vita nei campi. Lui è invece rimasto dipendente in un altro settore.
Questa situazione rappresenta una sorta di paracadute, che si usava nel Nordest negli anni del “miracolo economico”, quando nascevano più imprese che bambini. Ma Stefano non fa mancare il suo aiuto. E un domani, chissà… L’avventura aziendale ha messo sottosopra l’intera abitazione, che domina tutt’attorno una parte dei campi. Gli altri sono sparsi qua e là in giro per le colline di Cavasso Nuovo.
Complessivamente, gli ettari coltivati sono una quindicina, metà in proprietà e metà in affitto. Gli spazi della casa sono stati riorganizzati in funzione dell’attività agricola: dove c’erano garage e taverna oggi ci sono i laboratori.
Gli investimenti e i sacrifici stanno dando buoni risultati, tant’è che anche la figlia Marica, ventitreenne, è entrata in azienda subito dopo aver conseguito il diploma di tecnico contabile a Spilimbergo. «Unico rimpianto – dice – è di non poter insegnare musica ai bambini. Era il mio sogno, dopo anni di pianoforte». Lei e la madre costituiscono il motore dell’impresa. Il figlio più grande, Pier Williams, ha fatto invece altre scelte: lavora per una ditta forestale della zona.
La figlia Sasha, diciassettenne, si sta formando all’istituto agrario di Spilimbergo con l’idea fissa di dare manforte alla realizzazione del progetto familiare. Da ragazza digitale sta già fantasticando la valorizzazione dei prodotti attraverso la potenza della Rete.
L’ultima arrivata, Asia, è invece ancora troppo piccola per pensare al futuro. Le idee sono chiare e si sviluppano secondo i piani di Sandra Carusone: «Di cipolla si può vivere, però è necessario tenere in mano la gestione di tutta la filiera, dalla semina alla trasformazione del prodotto, fino ad arrivare al consumatore finale. Si tratta di far fronte a un grande lavoro, ma la famiglia è numerosa e può dedicare teste e braccia alla causa».
La regina della pedemontana. La semina della cipolla avviene a gennaio, con semi di autoproduzione distribuiti in semenzai protetti nelle serre. In primavera, le piantine vengono messe a dimora in campo aperto. La raccolta, a fine agosto, viene eseguita a mano, poi i bulbi hanno bisogno di stare a riposo per una decina di giorni in luoghi il più possibile bui e molto aerati.
La produzione dell’azienda è all’incirca di 20 quintali, ma non tutte le annate garantiscono la stessa quantità. «Noi rispettiamo scrupolosamente le necessità della terra – spiega Sandra Carusone – perché anch’essa ha bisogno di attenzioni particolari. Effettuiamo la rotazione delle coltivazioni, alternando ogni due anni le cipolle con patate o fagioli, in modo da creare benefici al terreno, così si migliora la qualità dei raccolti».
Anche la selezione ha le sue regole. Le cipolle di bell’aspetto vengono vendute a peso, mentre le altre sono destinate alla trasformazione in prodotti agrodolci, o sott’olio, e in confetture. Qui entra in gioco la creatività. Sono collocate sul mercato confetture di vario tipo: da quella di sola cipolla a soluzioni miste con l’aggiunta di frutti di bosco, pere o fichi.
Ogni scelta passa un’attenta sperimentazione per capire i gusti dei clienti. Nulla è lasciato all’improvvisazione. La vendita avviene attraverso il marchio di famiglia: la denominazione dell’azienda agricola, che porta il nome di Sandra Carusone, è accompagnata da un cuore rosso, simbolo della passione per i campi. Solo per il rispetto delle tradizioni al tanto lavoro si aggiunge anche quello delle trecce di cipolle.
Secondo le vecchie usanze, le rivindicules (ambulanti di verdure, ortaggi e frutta) dedicavano un po’ di tempo a intrecciare i bulbi per vendere il prodotto finito nei mercati, o per scambiarlo con farina di mais per la polenta. Il progetto delle trecce è previsto dai protocolli associativi, ma l’attività è troppo laboriosa. «Noi rispettiamo i disciplinari come obbligo morale – Sandra Carusone spiega l’impegno con un po’ di scetticismo – per non rompere un’antica usanza.
Ma il meccanismo è complesso, tant’è che i prezzi aumentano e i consumatori non sono entusiasti. Ci mettiamo velocità, ma non riusciamo a fare più di cinque trecce all’ora. Un lavoraccio! Ne teniamo all’incirca 150 per esporle alle sagre. Le composizioni sono di almeno sette bulbi a scalare, dalle più grosse alle più piccole, per un chilo complessivo. Per l’intreccio usiamo il palùs, che è un’erba selvatica di palude, lunga, flessibile e molto resistente».
Tra passato e futuro. L’azienda Carusone non si ferma alle cipolle, ma si allarga a vari tipi di ortaggi e di verdure per diversificare l’offerta: «Non possiamo permetterci di soccombere a causa di eventuali difficoltà da monocoltura». Intanto, le scorte in deposito registrano il sold out già in dicembre: «Aumenteremo la produzione». Un ettaro di terreno è stato destinato anche a una varietà particolare di mais (pignoletto rosso) recuperata da vecchie coltivazioni della zona.
La produzione garantisce una trentina di quintali di farina. Così viene messa in vendita anche una polenta pregiata. E nel ricettario non poteva mancare il frico, ovviamente preparato con cipolla, o con l’aggiunta di patate e pitina: «Siamo riusciti a piazzarlo in alcuni ristoranti di Venezia, ma con relazioni di marketing abbiamo raggiunto anche New York. E andremo oltre». Si tratta di 3-4 mila pezzi in confezioni sottovuoto. Il latte usato proviene esclusivamente da Pradis.
Lo studio delle potenzialità del territorio hanno creato le condizioni per l’avvio di una coltivazione di meli antichi, varietà Zeuca. Già si producono le prime confetture con mele mescolate con menta e cannella. «Mi ricordo che il nonno – spiega Stefano Di Michiel – considerava la pedemontana un Paradiso Terrestre. Da qui si tira fuori di tutto». Dai campi più alti dell’azienda la vista spazia lontano.
Sotto c’è la parte pianeggiante di Meduno: tra gli alberi si scorge la Roncadin, la fabbrica delle pizze surgelate, che è stata rimessa in piedi dopo il devastante incendio. È il simbolo di orgoglio della zona, perché rappresenta la capacità di rinascita: si cade e ci si rialza.
Al termine della chiacchierata, Sandra, donnone energico, si avvicina al marito Stefano e insieme indicano, proprio laggiù, l’azienda che dà lavoro a centinaia di persone in un’area fragile come quella pedemontana: «Eccola là, è il faro anche per noi piccoli produttori. Ci incoraggia ad avere fiducia nel futuro. In ogni momento guardiamo verso quella direzione per cogliere i segni positivi di idee, lavoro e caparbietà. Così si può crescere superando ogni tipo di crisi».
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