La Ribolla ha origini nel Medioevo, ora tutti vogliono copiarla

Che la Ribolla Gialla sia un vino autoctono del Friuli non ci piove. Nè la sua carta d’identità viene messa in discussione da chichessia. Affonda le sue origini nel Medioevo, quantomeno nel 1.300

Che la Ribolla Gialla sia un vino autoctono del Friuli non ci piove. Nè la sua carta d’identità viene messa in discussione da chichessia. Affonda le sue origini nel Medioevo, quantomeno nel 1.300. E per secoli quei grappoli rigogliosi con gli acini dorati sono stati utilizzati come pregiata merce di scambio o come pegno per i pagamenti tra agricoltori e commercianti, nei mercati di Udine.

Dopo il Tocai ora vogliono scipparci la Ribolla

A riprova che quel vino che si ricavava era considerato un bene di valore, nel mondo contadino friulano che viveva sotto il dominio della Serenissima. Poi la Ribolla ha avuto una sua lunga fase di declino, soppiantata da molti altri vitigni, bianchi e rossi, tanto che sul territorio erano rimasti un centinaio di ettari o poco più. I pionieri che le hanno ridato nuova linfa, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, sono due: Vittorio Pujatti a Farra d’Isonzo e Manlio Collavini a Corno di Rosazzo.

Ed è stato proprio quest’ultimo, che ha tagliato di recente il traguardo degli 80 anni ed è uno dei patriarchi del vino friulano, che l’ha prodotta, spumantizzandola, sia con il metodo classico che con il Martinotti-Charmat, vale a dire in autoclave. Un fior di risultato, tanto che oggi in molti, compresi i produttori concorrenti, per indicare la Ribolla con le bollicine che va così di moda, parlano di “metodo Collavini”.

Adesso per la Ribolla si aprono nuovi orizzonti, prospettive, scenari. Gli spumanti vanno per la maggiore tra Stati Uniti, Inghilterra e Nord Europa, in particolare il fenomeno Prosecco non sembra conoscere flessioni. E così la Ribolla beneficia di questo “traino” indiretto. Per carità, non può nemmeno lontanamente competere in quantità con il Prosecco (500 milioni di bottiglie contro 20 milioni). Ma può dire la sua, eccome, sul fronte della qualità. Perchè il palato dei consumatori si affina e ognuno cerca sempre il meglio, anche se degusta il suo calice di bollicine a Londra o a Toronto.

Ecco allora che la Ribolla Gialla fa gola: gli imprenditori la vedono come ideale vino di “alta gamma” da affiancare al Prosecco, nei mercati lontani ed esigenti, quelli che pagano bene. Però il Friuli Venezia Giulia, con i suoi 1.278 ettari coltivati a Ribolla Gialla (suddivisi esattamente a metà tra collina e pianura) più di 20 milioni di bottiglie l’anno non può mettere in commercio. Le istituzioni stanno spingendo molto sulla diffusione del vitigno, tanto che l’assessore Shaurli punta decisamente a 150 milioni di export del vino (oggi siamo a 120) proprio grazie allo spumante made in Friuli.

E nella Doc interregionale delle Venezie per il Pinot grigio c’è la clausola che la Ribolla può essere coltivata solo in Friuli Venezia Giulia, non nel resto del Nordest. Ma per aggirare l’ostacolo, ovvero la tutela, alcuni produttori che pensano esclusivamente al portafoglio, hanno pensato bene di piantare barbatelle di Ribolla in Sicilia.

Perchè business is business, dicono gli americani, ma dalle nostre parti non ci si vuole far scippare la potenziale gallina dalle uova d’oro. Una strada da percorrere? Quella di identificare la Ribolla Gialla friulana con un marchio specifico di qualità, ovvero la Docg.
 

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