La forza di chi è riemerso dai ghiacci di Nikolajewka

PORDENONE. Sale sul palco con passo deciso, Ottavio Pes, nato a Fontanafredda il 23 marzo 1921, reduce di Nikolajewka. Alle soglie dei 95 anni è uno dei «baluardi» delle penne nere che hanno combattuto la seconda guerra mondiale. Tra gli applausi, timidamente bisbiglia: «Ho solo la terza elementare», ma per lui la vera scuola è stata la vita, la gioventù durante la quale «ho provato le pene dell’inferno».
Non ha perso un’adunata, ovviamente nemmeno quella in casa, lo scorso anno a Pordenone. E non intende certo cedere il passo all’età anagrafica: «Fin che potrò sarò presente!», assicura tra gli applausi.
Di leva a Buffon, Tarcento, Val Tagliamento bis, Ottavio Pes parte per la Grecia, un mese di guardia contro i paracadutisti. Poi trenta giorni di rastrellamenti nelle case, a cercare armi. Riparte per l’Italia, il 28 marzo 1942, con la nave Crispi, in convoglio con la Piemonte, la Isastia e il Galilea, che viene affondato. Resta in patria pochi mesi.
«Me lo ricordo bene quel giorno, il 10 agosto 1942. Partimmo da Manzano, stipati su una tradotta come le bestie. Niente materassi, solo panchine in legno, un viaggio di nove giorni fino a Izium. Gli ufficiali erano sistemati in vagoni con sedili, eppure eravamo tutti figli di contadini».
Un mese di cammino, con lo zaino in spalla e il mulo accanto, trecento chilometri in tutto ed ecco il Don, una pianura infinita. Ogni trenta chilometri una tappa, per montare le tende e smontarle al mattino successivo, alle 11 mezza scatoletta di carne e di nuovo in marcia. Più vicino arrivava al fronte più l’avanzata avveniva di notte, perché il buio rendeva tutto, almeno in quei momenti, meno pericoloso.
Il 15 dicembre arriva l’ordine di raggiungere Saprina. «“Il camion non va più”, disse il conducente. Ci fermammo a dormire in un’isba. In realtà aveva più freddo in cabina di noi, che stavamo all’aperto, fino a 40 gradi sotto lo zero. Sei giorni in tenda, poi realizzammo un buco: “alloggiavamo” in due per ciascuna, non c’era un ramo attorno per allestire le tende, tutto ghiacciato».
Il 17 comincia la ritirata di Nikolajewka, il giorno dopo incontra i compaesani Nani Cimolai, Coleto de la Guardia, Nicola Giol. «Fu Nani a salvarmi la vita, a marciare trascinandomi per evitare che mi addormentassi e quindi rischiassi di morire. Arrivammo a Bielgorod dopo 14 battaglie, eravamo fuori dalla sacca. I tedeschi, il 31 gennaio, ci mandarono alla ferrovia, una tradotta ci portò a Karkov, in ospedale. Dopo giorni e giorni di viaggio, arrivai a Rimini. Dopo la convalescenza mi mandarono a Drenchia. All’armistizio ero finalmente a casa, a piedi. Eravamo partiti in 16 mila, con la Julia, in 10 mila non sono tornati».
Non pensava di rivedere il suo paese natale: quando arriva a Vigonovo è una grande festa. L’11 aprile 1953 don Lino Masat sposa Ottavio Pes, per tutti Taio, e Luigia, Gigia Beduz. Il reduce tira le somme, ma non depone le “armi” della vita: «Non è stato mai facile, ma sono contento di avere creduto in due valori: la famiglia e il lavoro».
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