La donazione del 1077 alle origini del Friuli

Il 3 aprile 1077 l'imperatore Enrico IV a Pavia, con un diploma, concesse a Sigeardo, patriarca d'Aquileia, suo leale collaboratore, la signoria temporale sulla contea del Friuli e su Lucinico; allora quell'atto passò quasi inosservato, rientrando nella norma, perché era era abituale.


Allora un sovrano, per sdebitarsi, donava territori e giurisdizioni ai propri fedeli, anche ecclesiastici, dal momento che dall'età carolingia era diffusa la figura del vescovo-conte, assommante in sé i poteri spirituali e temporali. Tale decisione, inoltre, imprimeva una svolta alla storia civile della regione, indirizzandola ancor più decisamente verso il mondo germanico, dal momento che il nuovo principe, così come i suoi successori sino almeno a metà del XIII secolo, furono tutti tedeschi - ma anche in seguito, si pensi al francese Bertrando di San Genesio e a Marquardo di Randeck, non mancarono quelli stranieri - che chiamarono al loro servizio nobili e artisti della medesima origine, facendo della corte cividalese un centro di diffusione della cultura transalpina a tutti i livelli, incluso quello idiomatico, e rafforzando le strutture signorili e feudali dei territori a essi soggetti non solo dal punto di vista ecclesiastico, in tale modo frenando il processo, allora agli esordi, di nascita e sviluppo di quella dinamica realtà comunale, essa sì, per quanto limitata, di germinale democrazia, che stava delineandosi nell'Italia centro-settentrionale e che sarebbe giunta a piena maturazione nei decenni successivi; e che tale struttura sociale fosse soffocante e oppressiva per le classi subalterne lo si sarebbe verificato nella maniera più drammatica con la sanguinosa insurrezione rusticana del 1511, anni or sono oggetto di un'importante monografia di Furio Bianco.


Un siffatto orientamento venne attenuandosi solo con la svolta in senso guelfo dei patriarchi aquileiesi, fino a quel momento ghibellini, ora nella maggior parte dei casi d'origine italiana, che ovviamente si circondarono di ministeriali e letterati conterranei, spostando, anche approfittando della crisi del sistema imperiale, l'asse gravitazionale friulano verso la pianura padana, donde la rinascita dell'elemento romanzo, neolatino pure sul versante linguistico. Solo la caduta del potere temporale aquileiese, tra 1420 e 1445, in seguito alle vittoriose campagne d'espansione veneziana in Terraferma, che inglobarono fino al 1797 la Patria del Friuli nel Serenissimo Dominio, avrebbe consentito un pieno dispiegarsi dell'influenza della civiltà italiana, allora al suo culmine.


Benché studiosi locali di matrice ecclesiastica e cattolica - e ciò è comprensibile nella loro ottica - a lungo nel 1420 abbiano visto la data finale della storia friulana, stranamente letta in una riduttiva prospettiva solo istituzionale e non sociale, economica e culturale, tanto da concludere lì trattazioni manualistiche a essa dedicate, è inoppugnabile che l'inserimento nel mondo veneziano, con tutto ciò che significava, in termini di slargamento d'orizzonti, il far parte di quella che un insigne storico francese quale Fernand Braudel ha definito una città-mondo, ha giocato a favore della società friulana, che se ne rese conto sin da subito, come attesta la sua sostanziale fedeltà al leone marciano nella crisi primocinquecentesca. Se oggi il patrimonio regionale può vantare i capolavori pittorici del Pordenone e dei Tiepolo, solo per menzionare alcuni dei maggiori artisti ivi operanti, un gioiello insuperato e unico d'architettura militare quale Palmanova e una villa Manin, mentre l'odierna Pordenone industriale trova le sue premesse in talune avvedute scelte settecentesche lo si deve proprio alla lunga dominazione veneziana, mentre sul piano della vita religiosa è ormai ben documentata la positiva opera riformatrice e di mecenatismo dei patriarchi membri delle più prestigiose famiglie aristocratiche lagunari.


Dopo la parentesi napoleonica e il cinquantennio austriaco, l'ultimo tornante della millenaria storia del Friuli è stato il 1866, con l'annessione al Regno d'Italia, a coronamento almeno politico d'un Risorgimento per la cui attuazione l'élite intellettuale s'era animosamente battuta, così ponendo termine al moto pendolare tra asse padano e asse danubiano che aveva connotato le vicende regionali nell'arco di più secoli - incidendo su mentalità collettive, lingua, comportamenti sociali, vita morale così come materiale -, a ragione, visto a suo tempo da uno studioso di vaglia quale Gaetano Perusini, emblematico d'una regione posta nel cuore dell'Europa, un dato di fatto, questo, dal quale non è possibile prescindere, come, d'altronde, ha giustamente notato la Provincia di Udine nell'opuscolo 3 di Avrîl fieste dal Friûl là dove si parla di «una regione che non è più area di confine, bensì baricentro, cuore pulsante dell'Europa (...) senza però appiattirsi in un'omologazione incondizionata delle culture, ma affonda(ndo) le radici nella memoria preservando quegli aspetti di tipicità che rendono speciale il Friuli» - e meglio non si sarebbe potuto dire, anche pensando a quello ch'è oggi è il recupero della storia e della cultura locali nei programmi scolastici -, mentre in apertura del medesimo testo si sottolineava con forza l'esigenza di «riflettere per costruire un nuovo modello di rapporti più attenti all'originalità e ai diritti del popolo friulano (...) in un mondo sempre più spersonalizzato».


Che il 3 aprile 1077, però, sia fondamentale nel costituirsi dell'identità friulana è decisione di natura politica né più né meno di tutte le altre date che gli Stati hanno posto come degne di celebrazione e ricordo nei calendari nazionali e nei rituali civili, decretandone un valore simbolico e ideologico strumentale alle loro esigenze e obiettivi e mitizzandone l'effettiva realtà; siamo, insomma, di fronte a un tipico esempio di regionalizzazione (per parafrasare il processo di nazionalizzazione esemplarmente studiato da George L. Mosse) delle masse.


L'evento che ora s'intende ricordare e proporre come centrale nella storia regionale poco o niente significava per le classi dirigenti del passato, meno che mai nell'Italia liberale e fascista, dove altri erano i momenti fondanti della peculiarità friulana - la romanità, il Risorgimento, la stagione eroica della Grande guerra - e altri gli aspetti della civiltà friulana messi in luce; basta pensare al lavoro della Società filologica friulana tra 1919 e 1940 quale è stato puntualmente ricostruito dalla Vinci nel volume sul Friuli in camicia nera di cui s'è qui detto quattro giorni orsono. Oggi v'è ormai una copiosa letteratura storiografica su tecniche e modalità di costruzione delle identità comunitarie e sulla manipolazione del passato da parte del presente: non v'è una storia esistente per se stessa, che si tratterebbe soltanto di riscoprire e far conoscere, bensì una storia che è il risultato di un'operazione storica, molto spesso sottoposta a forti pressioni di natura extrascientifica e piegata a scopi che con l'autentica conoscenza storica hanno poco o nulla che vedere, indicativo essendo appunto lo stravolgimento della storia romana attuato dagli antichisti asserviti al carro del potere mussoliniano. Del resto, anche certe rivendicazioni d'una sorta di primato del Parlamento della Magnifica Patria del Friuli di contro alla famosa Magna Charta libertatum inglese risentivano della polemica fascista nei riguardi della perfida Albione; più di recente, poi, s'è assistito a un altro significativo caso di rilettura attualizzante d'un episodio medievale, vale a dire la Lega Lombarda e la battaglia di Legnano, rilanciato da Bossi e dalla Lega Nord - che in tale senso altro non facevano che riprendere un analogo processo risorgimentale - in chiave padana, laddove la realtà, secondo quanto dimostrato da uno specialista come Franco Cardini, era ben altra e meno nazionalista, per fondare su basi in apparenza storiche il processo secessionista o per lo meno federalista. Desta, inoltre, perplessità il fatto di richiamarsi proprio a tale avvenimento come momento iniziale della friulanità in qualche modo svalutando ciò che l'ha preceduto: l'età romana (Aquileia) e quella longobarda (Cividale) e il complesso e travagliato processo antropologico, culturale in senso lato, sociologico a esso successivo, che ha dato luogo al Friuli odierno.


Se, legittimamente, si sente la necessità di rafforzare il senso d'appartenenza della regione in un'epoca segnata da evidenti, brutali fenomeni d'omologazione, che investono l'intera Europa - e iniziative analoghe si stanno prendendo altresì nelle province basche -, si deve, però, avere l'onestà d'ammettere in maniera esplicita che si ricorre a quel processo d'invenzione del passato, lucidamente messo in luce, a suo tempo, da Eric J. Hobsbawm, che è alla base delle politiche, otto e novecentesche, di costruzione delle nazioni, grandi o piccole che siano. Le religioni della Patria, così caratteristiche della secolarizzata età contemporanea, continuano, pertanto, sia pure sotto altre, più blande, forme e adeguandosi alle retoriche - termine qui usato nell'accezione tecnica, senza veruna connotazione negativa - politiche odierne, a essere presenti e operanti. Presone atto e rammentando quanto a tale proposito scrisse Carlo Guido Mor nelle Memorie storiche forogiuliesi del 1977 contestando le disinvolte interpretazioni del Placereani, si può benissimo collocare il 3 aprile 1077 nel Pantheon friulano, ma avendo l'accortezza d'inserirlo in un ben più ampio e complicato itinerario storico, nel quale molteplici, variegati e spesso anche contraddittori sono stati gli apporti e le influenze non meramente istituzionali - come ignorare un fenomeno di massa quale l'emigrazione, a nostro avviso ben più rilevante e determinante? -, e di riconoscere il carattere soggettivo e operativo di tale scelta.

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