In viaggio con Mauro Corona tra i segreti della Valcellina

E’ fra le case di Erto, sole, abbandonate, silenziose, eppure così potentemente capaci di evocare ricordi e storie, che il viaggio di “pordenonelegge il territorio” approda, in un primo pomeriggio che ha già la luce dell’estate, ma sotto un cielo che si fa sempre più carico di pioggia.
I cinquanta visitatori speciali, protagonisti di una nuova tappa del percorso di turismo culturale affidato a ciceroni d’eccezione, sono in leggero ritardo sul tabella di marcia. “Colpa” delle squisitezze a chilometro zero della trattoria “Al Cervo bianco”, meritato approdo dopo una mattinata sulle orme del Menocchio e di colui che come nessun altro sa raccontare l’eretico mugnaio e quelle terre dentro e attorno a Montereale - Aldo Colonnello, “il” Circolo Menocchio - fra palazzo Toffoli, le imponenti suggestioni della centrale idroelettrica di Malnisio e dell'Immaginario scientifico.
Lui, il cantore di Erto, lo sciamano delle montagne, è già lì. Mauro Corona è pronto a raccontare l’epopea di un paese e dei suoi abitanti, fra «le vetuste case una attaccata all’altra e le vie di acciottolamento buie e strette» descritte nel suo “Fantasmi di pietre”, ricordato da Gianmario Villalta mentre il gruppo si ricompatta, pronto a immergersi nella vecchia Erto, risparmiata dal muro d’acqua assassino grazie a uno spuntone di roccia che spezzò la seconda onda.

Salvate la valle. Alcuni non ci sono mai saliti, lassù. Sono i giornalisti della stampa nazionale, chiamati a scoprire quei luoghi. «Dritti e attenti alle gambe, che Erto significa ripido» ammonisce Corona. E poi si va subito al punto. A quello che Mauro Corona, comunque la si pensi, da anni sta facendo per la sua gente. La denuncia costante, sistematica e appassionata contro chi sta favorendo la spoliazione, lo spopolamento. «L’Unesco, il patrimonio dell’umanità, le Belle arti, e intanto le case scivolano giù, la gente scappa via. Non ha i soldi per metterle a posto. Invece di tante belle parole lo Stato deve intervenire. Perché non si fa qui una bella università? Perché Napolitano non è mai venuto? E’ la solita Italia dei proclami. La storia del dopo Vajont è ancora da scrivere, ed è fatta di mostruosità».
Fantasmi di pietra. È una popolazione di fantasmi quella che Corona suscita, ripercorrendo casa per casa le quattro strade deserte che un tempo brulicavano delle voci di ogni giorno, lungo le vie «dove si batteva la falce» abitate da «gente che mi piaceva perché si faceva gli affari propri. E poi qui erano tutti sintetici. Per descrivere i gradi dell’arrampicata c’erano solo due parole: bon o trist. Ed era sufficiente».
Autografi e libri. Il giro è appena iniziato e da una trattoria esce un gruppo di triestini. Appena riconoscono Corona si scatena l’euforia. Una signora in età non trattiene un grido di gioia. Lui scatena tutte le sue doti di affabulatore, firma autografi, non si sottrae a foto e chiacchiere. «Del resto alzi la mano chi non è spinto dalla vanità» dirà poco più tardi parlando di ciò che lo ha spinto a scrivere. «Ma a parte questo, scrivo per salvare la memoria di un paese».
Amici e personaggi. Si sosta davanti al campanile della chiesa. «La mia prima arrampicata. Avevo vissuto nel mito di Vittorio Corona (Crosta) che aveva scalato il primo spigolo. A 26 anni l’ho fatto anch’io. Tutti e quattro gli spigoli. Resistenza e dita forti: la scalata è questo».

A pochi passi ecco l’osteria Gallo Cedrone. «Qui c’era Filin (Pietro Filippin), morto a Dachau con altri quattro. Anche mio zio Orazio fu deportato, ma lui si salvò, tornò a casa di 30 chili, ma vivo». In via San Rocco c’è la casa in cui è Corona è nato. «Le stalle, le mucche, là abitava Celeste, poi Angelina, Carlo. Carlo è morto venti giorni fa, i miei amici se ne stanno andando tutti. Ma è la vita, dai, avevamo pochi soldi ma tanta voglia di vivere, ci siamo fatti delle sbronze colossali e allora? Meglio quello che dipendere da I-phone, telefoni, auto. Ma attenzione, non vivo di nostalgia, racconto un mondo che non c’è più».
E poi don Pancino, il confessore di Mussolini che visse a Erto vent’anni «e che aveva portato qui tre cassette di documenti, soldi e una pistola; Firmin, contrabbandiere pericolosissimo che fu ucciso da Svalt de Arcangelo, uno che aveva 50 ferite sul corpo». Perché botte, colpi di stiletto o di manara non erano mica rari fra quelli che «abitavano nella strada sotto e quella sopra».
Del resto «la guerra siamo noi, i confini li mettiamo noi, non certo la natura. Sono dettati dall’orgoglio. L’uomo non è buono» ammonisce Corona, mentre quella pioggia promessa si scatena e costringe a chiudere il giro un po’ più in fretta. Tappa successiva la diga del Vajont: sarà il sindaco di Erto, Luciano Pezzin, a raccontare quella brutta storia.
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