In barca con il nonno ad aiutare
PORDENONE. Ero in prima elementare, nel 1966.
Abitavo a Udine, ma i nonni paterni vivevano a Pordenone, in una vecchia casa in via Cappuccini dove trascorrevo fine settimana e feste comandate.
Anche in quei primi giorni di novembre, andò così: da Udine a Pordenone sotto una pioggia battente. Giorno dopo giorno, non accennava a smettere.
A me impediva di giocare all’aperto, ai miei toglieva il sonno: l’alluvione dell’anno prima era ancora impressa nella memoria, per non aver paura. E infatti, acqua su acqua, arrivò la “montana”.
Via Cappuccini rimase all’asciutto, assieme alla casa. Ma la città bassa divenne un enorme lago.
Sapevano bene, i miei nonni, cosa significava. Due guerre, sofferenze, fame e sacrifici non avevano garantito nulla: la gente continuava a vedersi portar via tutto.
E ci si aiutava come si poteva. Come durante la guerra, quando la nonna distribuiva ai bambini del vicinato quel po’ di latte che garantiva Colomba, l’unica mucca del quartiere, così mio nonno, nel 1966, cercò di dare un aiuto con la sua barca a remi.
Era un guscio di legno che catramava lui stesso, dietro casa, coi ferri da stiro in ghisa ormai in disuso.
La teneva ormeggiata sul canale della centrale idroelettrica della Burida.
All’epoca, i mezzi d’informazione locali si esaurivano coi quotidiani, qualche telefonata e il passaparola. E fu parlando con chi aveva parenti oltre il ponte della ferrovia, che si venne a sapere che Pordenone era sott’acqua fin oltre la gelateria Zampolli, alla fine di corso Vittorio Emanuele.
Da quel momento, finchè l’acqua non cominciò a ritirarsi, mio nonno si mosse remando per la città allagata, cercando eventuali persone in difficoltà, raccogliendo le richieste che in qualche modo poteva soddisfare.
Una mattina mi portò con sé. Sono passati cinquant’anni, da quando imbacuccata a dovere sono salita su quella barca a remi.
Ho un solo ricordo, perchè uno solo era lo scenario: acqua color fango dappertutto. Nella mia testa di bambina, mi sembrò che tutta la città fosse diventata d’acqua.
Non era paura, era qualcosa che non avevo mai visto. Era già fantasia, immaginazione.
Come se il lago della Burida, dove d’estate con quella barca il nonno mi portava a pesca e a prendere le more sull’isolotto, avesse abbracciato tutta Pordenone.
Oltre a quel colore limaccioso, oggi l’unica, nitida fotografia che la memoria mi rimanda dell’alluvione del 1966 sono le statue del ponte di Adamo ed Eva che rischiavano di annegare e le barrette metalliche che ancora adesso, su qualche edificio di Pordenone, testimoniano sino a che altezza si spinse l’inondazione.
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