Il segreto del “Papu”, il prof ispiratore del duo comico

PORDENONE. «Mi chiamo Mauro Brusadin, i coetanei, che non sono rimasti tanti, mi chiamano Papu per abitudine». Pordenonese doc, insegnante per oltre quarant’anni e uomo di sport, giocatore e poi allenatore, il famoso duo comico prende il nome proprio da lui.
Laureato in lettere nel 1968, ha insegnato alle medie Ippolito Nievo e Monti, due anni allo scientifico Grigoletti, 17 al Kennedy e 18 al classico.
Professor Brusadin, dove è avvenuto l’incontro coi Papu?
«All’istituto Kennedy, triennio chimico. Andrea Appi era uno studente eccellente sotto il profilo della scrittura e della oralità, eccezionale per una scuola tecnica. Ramiro Besa era il classico studente che sapeva e poteva, ma non cercava di brillare. Il personaggio che è in scena, è quello che era».
Come è finita?
«Si sono diplomati tutti e due».
Perché la chiamano Papu?
«Popi, Papo, Bobo, sono ecolalie, ripetizione di una sillaba. Da piccolo mi chiedevano come mi chiamavo: siccome era difficile pronunciare Mauro, rispondevo papu. Nome che si è diffuso nel quartiere, dalla parrocchia all’oratorio, e che poi mi sono tenuto».
Sino a quando...
«Ho cominciato a giocare a calcio. C’era un giornalista, il maestro Gildo Marchi, che faceva le cronache sportive del Pordenone calcio. Al mio debutto, titolò: “Esordio di Papu”, scrivendo che avrei fatto cose eccezionali in quella partita, di cui non ricordo nulla, tanto che fui ceduto alla Tevere Roma, mezzala, primavera 1961. Da quel giorno, però, il nome m’è rimasto appiccicato».
Torniamo ai Papu artisti.
«In classe mi piaceva drammatizzare le situazioni letterarie. L’italiano doveva diventare un’ora di conoscenza e sollievo. Presentavo Dante e la sua commedia con forme efficaci di drammatizzazione, i comici fiorentini del 200, Goldoni, Gozzano, autoironici: loro stessi amavano prendersi in giro. Chiaro che con Manzoni e Leopardi c’era poco da scherzare e comunque in classe non si faceva carnevale. Questa umanizzazione ha avuto esiti collaterali».
Come la nascita del duo.
«Il fatto di averli riscoperti in qualche pub della zona a recitare le gag con questo nome mi ha fatto piacere. Forse era piaciuto l’aspetto fonico. Non mi ero mai accorto delle loro attituduni… chissà quante me ne hanno combinate, senza che me ne accorgessi».
Meritavano di sfondare?
«Deve essere un mondaccio, quello dello spettacolo… Secondo me la loro comicità fa fatica a uscire da questo territorio per l’uso del dialetto. O si è romani, milanesi o napoletani o... il dialetto veneto non ha avuto grandi fortune».
Ultimo, il calcio. Giocatore sino a 25 anni col Pordenone, Tevere Roma, Como, Conegliano, allenatore per 45 anni dei neroverdi, Sacilese, Fontanafredda, e molte altre formazioni. Chiudiamo col Pordenone 2015-16.
«Sono abbonato. Sta facendo cose non buone, ma eccellenti. Da mezzo secolo non si vede giocare una squadra così. Ora ci sono qualità, competenza e spero, successi».
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