I 100 anni dell'alpino reduce di Russia: «Oggi mi mancano i contatti umani, ma la guerra è stata un’altra cosa»

PORDENONE. Martedì 23 marzo Ottavio Pes compie 100 anni. Gli alpini della sezione di Pordenone e del gruppo di Vigonovo di Fontanafredda di cui è socio fondatore avrebbero voluto e immaginato una grande festa. Sarebbe stata di popolo perché il centenario è conosciuto e stimato tra tutte le penne nere.
Invece saranno auguri a distanza, ma ugualmente sentiti. «Faremo qualcosa di più a emergenza alle spalle», assicura il capogruppo Aurelio Cimolai.
Di sicuro non mancheranno gli auguri dei figli Nicola, Antonia e Valeria, delle tre sorelle e del fratello viventi (inizialmente erano otto) e di tutti i parenti e degli alpini. Dal cielo rinnoverà la sua protezione la moglie Luigia Beduz venuta a mancare, novantenne, tre anni fa.
Ottavio Pes non ha mai disertato gli appuntamenti dell’Ana. A Trento, nel 2018, ha potuto incontrare il suo comandante di allora, Guido Vettorazzo. A Milano, all’ombra del duomo, è stato osannato. L’adunata di Rimini-San Marino è stata rinviata più volte causa pandemia: «Vorrei esserci – dice – perché rientrato dalla Russia mi portarono in quell’ospedale militare. Chissà se c’è ancora. E poi vorrei chiudere in bellezza a Udine».
Lucidissimo, in discreta salute, Ottavio Pes ha dovuto regolare le sue giornate sulla base delle disposizioni anti-Covid. «Ma gli amici mi mancano tanto».
Sino alla vigilia del lockdown si recava da solo, a piedi, al bar del paese. Era l’appuntamento del mattino: un paio d’ore tra gli amici davanti a un caffè e un succo di frutta. Poi il pranzo, il riposo, la passeggiata nel suo campo, la sosta alla fontana, il rientro al tramonto, la lettura di libri, le parole crociate. «Dovendo rimanere in casa le gambe si sono un po’ stancate. Ma soprattutto gli manca il contatto con le persone», dicono i figli.
Alla festa per i 95 anni ne arrivarono 450. Stavolta sarà torta con la famiglia e una manciata di alpini, col presidente della sezione Ilario Merlin. Penne nere che intendono festeggiare a dovere uno degli ultimi reduci.
Nato a Fontanafredda il 23 marzo 1921, di leva a Buffon, Tarcento, Val Tagliamento bis, venne mandato prima in Grecia, per un mese di guardia contro i paracadutisti. Poi un mese di rastrellamenti nelle case a cercare armi. Il 28 marzo 1942, a bordo della nave Crispi – in convoglio con la Piemonte, la Iastia e la Galilea, che venne affondata –, ripartì per l’Italia. Ma il rimpatrio fu temporaneo.
«Il 10 agosto 1942 – ricorda Ottavio Pes – partimmo da Manzano, dove ero arrivato a piedi, stipati su una tradotta. Niente materassi, solo panchine di legno, un viaggio di nove giorni sino a Izium. Gli ufficiali erano sistemati in vagoni con sedili: eppure eravamo tutti figli di contadini».
Un mese di cammino con lo zaino in spalla e il mulo accanto, 300 chilometri ed erano sul Don. «Ogni trenta chilometri una tappa, montare le tende e smontarle il mattino successivo, mezza scatoletta di carne e di nuovo in marcia. Più vicino si arrivava al fronte più l’avanzata avveniva di notte».
In settembre il primo morto: «Il vicecomandante della compagnia, fulminato da un cecchino». Il 15 dicembre arrivò l’ordine di tornare al campo base. «Eravamo a 40 gradi sotto zero, “alloggiavamo” in due per ciascun buco che ci eravamo scavati dal momento che attorno non c’erano rami per allestire le tende: era tutto ghiacciato». Esortava la madre a scrivere più lettere: «La carta serviva per i servizi igienici. Oggi vi sembrerà un orrore, ma era così».
Il 17 iniziò la ritirata. «Nella vallata del Kalitwa feci in tempo a raggiungere la Sussistenza mentre tanti vennero bloccati dai russi. Incontrai i compaesani Nani Cimolai, Coleto de la Guardia e Nicola Giol». Fu Nani a salvargli la vita: «Mi trascinava marciando, per evitare che mi addormentassi e morissi. Il 21 lo persi di vista».
Il 26 gennaio «arrivammo a Bielgorod, dopo 14 battaglie: eravamo fuori dalla sacca. I tedeschi, il 31 gennaio, ci mandarono alla ferrovia. Una tradotta ci portò a Karkov, in ospedale». Congelamento di secondo grado ai piedi. «Dopo giorni e giorni di viaggio arrivai a Rimini». Scorrono le immagini delle ultime giornate al fronte: le slitte che trainavano i malati e i conducenti che spesso scappavano lasciandoli al gelo, la divisa mai cambiata, i pidocchi che si muovevano («ed erano peggio del freddo»).
Dopo la convalescenza a Drenchia, l’armistizio: «Ero finalmente a casa. Con la Julia eravamo partiti in 16 mila, in 10 mila non sono tornati».
L’11 aprile 1953 il matrimonio celebrato da don Lino Masat. «Vuoi tu, Ottavio Pes, di anni 32, alpino delle Centomila gavette di ghiaccio, della Divisione Julia, 8° reggimento, battaglione Tolmezzo, 114.ma Compagnia, reduce di Grecia, testimone del siluramento del Galilea, sopravvissuto sul Don e superstite di Nikolajewka, vuoi tu sposare la qui presente Luigia Beduz di anni 25?».
Dopo il sì, nessun applauso: «Non si usava». “Taio” aveva conosciuto “Gigia” nella falegnameria che aveva aperto con Rico Burigana, fratello della mamma Vittoria, vissuta sino a 104 anni.
«Sono stati anni duri, ma ce l’abbiamo fatta perseguendo due valori: famiglia e lavoro», ricorda. La pandemia tiene tutti distanti, ma la guerra «era un’altra cosa. In Russia ogni giorno morivano centinaia di giovani, dovevamo trovarci da mangiare a 40 gradi sotto zero. Oggi stiamo al caldo e possiamo andare al supermercato. In condizioni di vita decisamente migliori. Ma sono contento della mia vita e della mia famiglia».
Buon compleanno, Ottavio! —
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