Gli assicuratori ricattati «Non dormivamo più»

Ieri le testimonianze di Walter Scolaro e del figlio dopo il rogo della villa nel 2012 Intimidazioni “mafiose”: allusioni su scioglimenti nell’acido e piloni di cemento

Un clima di intimidazioni in stile “mafioso” quello descritto ieri in aula dagli assicuratori pordenonesi Walter e Luca Scolaro nel processo sui presunti ricatti ai danni degli stessi Scolaro, padre e figlio, ai quali era anche stata incendiata la villa nel dicembre 2012. I legami con Cosa nostra, di fatto, erano solo millantati allo scopo – secondo l’accusa – di estorcere denaro, ma in quel periodo gli Scolaro non potevano saperlo. Tanto più che poi era stato appiccato il rogo alla villa.

Comprensibile, allora, lo stato di ansia costante descritto ieri nell’udienza, cominciata alle 10 e terminata pochi minuti prima delle 19, con esame e controesame davanti al collegio giudicante presieduto da Iuri De Biasi (a latere Giorgio Cozzarini e Rodolfo Piccin), con il pm Giorgio Milillo che aveva firmato l’inchiesta di competenza della Direzione distrettuale antimafia. Gli Scolaro si sono costituiti parte civile con gli avvocati Bruno e Antonio Malattia. «Noi non avevamo mai avuto problemi economici, abbiamo sempre fatto la nostra vita da onesti cittadini. Con questa vicenda ci abbiamo rimesso la salute – è il concetto espresso in aula da Walter Scolaro –. Non si dormiva più e anche mia moglie ha cominciato ad avere problemi di salute». Luca ha parlato di un clima di continua pressione, soprattutto da parte del calabrese Salvatore Bitonti, condannato con l’abbreviato a 6 anni dal Gup, lo scorso luglio, per concorso in estorsione aggravata dal metodo mafioso (il gup aveva condannato anche il croato Alfonso Parise e il cosentino Saverio Iemmello, rispettivamente a 4 anni e 8 mesi e a 4 anni). Una messinscena in cui non mancavano allusioni alla figura di “Enzo il siciliano”, sedicente mafioso di Corleone (in realtà “interpretato” da Vincenzo Centineo, uno degli imputati), e su pratiche che nell’immaginario popolare sono attribuite a Cosa Nostra come i cadaveri sciolti nell’acido o fatti sparire nei piloni di cemento.

Oltre a Centineo, siciliano di Salgareda, sono imputati davanti al tribunale di Pordenone l’imprenditore sacilese Raimondo Lucchese, Pietro Ferraro, calabrese residente a Marcon, ed Emanuele Merenda, collaboratore di giustizia siciliano detenuto a Bologna, che devono rispondere di tentata estorsione e dell’’incendio. Quinto imputato è Mario Tironi, sedicente uomo d’affari di origine macedone, che deve rispondere del furto di 500 mila euro. Ieri si è parlato anche del ruolo di Tironi, che secondo quanto emerso in aula si presentava come “Francesco”, ex console croato con passaporto emesso dall’Ordine di Malta. Proprio Tironi ha un ruolo centrale nell’innescare la vicenda. Lucchese gli aveva consegnato 500 mila euro: Tironi doveva cambiare le banconote da 500 in tagli più piccoli. L’imprenditore, però, aveva ricevuto in cambio solo 30 mila euro veri e, per il resto, banconote fasulle. Intanto Tironi era sparito. Secondo la ricostruzione della Procura gli assicuratori avevano presentato Bitonti all’imprenditore per aiutarlo a localizzare Tironi. Ma le ricerche non erano arrivate a buon fine. A quel punto, secondo il capo di imputazione, Bitonti, in concorso con l’imprenditore e altri tre imputati aveva tentato di costringere gli assicuratori a dare 300 mila euro. Agli Scolaro era stato fatto credere che parte del denaro perso dall’imprenditore apparteneva a clan mafiosi e che Cosa nostra avrebbero ritenuto gli assicuratori responsabili della perdita. Nella prossima udienza, il 16 maggio, a parlare sarà Merenda.

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