Fvg, la regione “super renziana” non segue il leader

UDINE. Inizio del mese di novembre di due anni fa. Matteo Renzi nel suo tour in treno fa tappa in Friuli Venezia Giulia. Nel tragitto tra Redipuglia e Udine, l’ex premier si lancia in una diretta Facebook e pretende non soltanto Ettore Rosato e Debora Serracchiani al suo fianco, ma anche due delle millennials che aveva voluto in Direzione nazionale e cioè Elisa Graffi e l’orlandiana Caterina Conti.
Prima, in una riunione ristretta, aveva confermato il lancio di Sergio Bolzonello alla candidatura in Regione, assicurato a Serracchiani un posto in lista alla Camera e pure a Franco Iacop al Senato. Poi si sa come andarono le cose da lì a pochi mesi, con l’ex governatrice fatta scalare, nella notte tra 26 e 27 gennaio, in seconda posizione al proporzionale e Iacop depennato dalla lista in favore di Tommaso Cerno.
Ma al di là delle ultime Politiche, sono quelle istantanee che tornano alla memoria dal viaggio in regione dell’ormai ex rottamatore a fotografare l’altissimo tasso di renzizzazione del Friuli Venezia Giulia quando governava il centrosinistra.
D’altronde, da queste parti c’era Rosato come capogruppo alla Camera, Alessandro Maran vice al Senato e Serracchiani presidente e numero due del partito nazionale. Difficile in regione, mutuando una celebre frase di Pierluigi Bersani, trovare «così tanto potere in così pochi chilometri» in un altro partito.
Attenzione, questo non significa che dalle parti di piazza Oberdan fossero tutti renziani doc – e basta pensare alle polemiche fino allo strappo finale di Mauro Travanut per ricordarselo –, così come tra i parlamentari – Carlo Pegorer e Lodovico Sonego sono stati tra i più acerrimi nemici della corrente del giglio magico –, ma è innegabile che a comandare fossero gli uomini e le donne che si rifacevano direttamente all’ex sindaco di Firenze.
È quasi impossibile, infatti, non notare nelle politiche della precedente amministrazione una sorta di turbo-renzismo spinto al massimo con, anzi, la volontà – lecita, sia chiaro – di arrivare addirittura prima del Governo. Basti pensare, ad esempio, all’abolizione dei vitalizi (e pure di ogni sistema pensionistico) per i consiglieri regionali realizzata come primo atto della legislatura e sbandierata in lungo e in largo.
Oppure, ancora, la corsa contro il tempo per cancellare dallo Statuto le Province prima del referendum costituzionale bocciato dagli italiani e che è costato il Governo a Renzi con il corollario di trasformare il Friuli Venezia Giulia nell’unica regione d’Italia priva di enti intermedi (pur di secondo livello come prevede la Delrio).
Serracchiani e i renziani dominarono il partito e l’amministrazione regionale – legittimati anche del 67% raccolto alle primarie 2017 – con la minoranza interna messa all’angolo, che protestò, ma alla fine votò tutto, o quasi, quello che arrivava in Consiglio.
Quindi, nemmeno troppo magicamente, qualcosa è cambiato. E in estrema fretta. È bastato che il Pd crollasse al 18% alle Politiche e alle Regionali che la derenzizzazione del partito friulano è avvenuta in un batter d’occhio e ormai si fa difficoltà – a eccezione di Rosato e dell’ex segretaria Antonella Grim che non per nulla hanno seguito il loro leader – a trovare qualcuno che appoggi colui che, nel bene o nel male, ha guidato il Paese per quasi tre anni.
E allo stesso tempo sono cambiati, radicalmente, i referenti politici. A guidare il partito, in Friuli Venezia Giulia, c’è un uomo sicuramente più di sinistra che di centro come Cristiano Shaurli mentre il riferimento principale di Nicola Zingaretti a Nordest veste i panni e il nome di Francesco Russo.
Perfino chi abitualmente andava alla Leopolda – il goriziano Diego Moretti tanto per citarne uno – ha deciso di cambiare rotta. Forse perché, come sostiene Matteo Orfini, extra ecclesiam nulla salus – cioè è meglio stare all’interno di un partito che veleggia attorno al 20% che imbarcarsi in un’avventura con un leader quotato attorno al 15% di fiducia –, o semplicemente perché una stagione si è chiusa e, la convinzione è questa, non si riaprirà. Punti di vista: sia come sia, alla fine cambia poco.
Perché la realtà è che dalle parti di via Joppi la trasformazione genetica del partito è quasi completata. Un’esagerazione? Mica tanto. In fondo se perfino tra gli eredi dei Ds si comincia a parlare di partito federato e autonomo, da Roma, allora significa che si sta cominciando a navigare verso mari nuovi, affascinanti, ma anche sconosciuti. Certo, la traversata sarà lunga e difficile.
Se porterà a San Salvador, oppure si schianterà contro l’iceberg della Lega, lo diranno soltanto le prossime elezioni. C’è di buono, per i dem, che, al netto di stravolgimenti, c’è tempo, almeno tre anni, da qui ai prossimi appuntamenti di peso. Buon lavoro.
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