«Era l’estate 1974: con Sergio De Infanti conquistammo Cima Friuli a 7.100»

Monsignor Mario Qualizza ricorda la spedizione in Pakistan La vetta era inviolata. Con loro anche Aldo Scalettaris

alessandra beltrame

Nell’estate del 1974 un drappello di friulani parte alla volta del Pakistan per celebrare il centenario della Società Alpina Friulana. Sono dieci intrepidi alpinisti. Rientreranno dopo aver conquistato una vetta inviolata a 7.100 metri nel Saraghrar, che battezzano Cima Friuli.

Capo spedizione era Sergio De Infanti, uomo che ha riunito molte anime - maestro di sci, guida alpina, imprenditore, scrittore - ed è scomparso a 74 anni, il giorno di Ferragosto di un anno fa.

Figura difficile da dimenticare per chi l’ha incontrato sulle vette o nel suo buon ritiro della Pace Alpina, a Ravascletto, dove ha lasciato una discendenza tutta femminile: Maria Cristina, Aline, Samantha, fortissime nel coltivare il ricordo di un marito, padre e nonno ispirato e ispiratore, concreto e visionario insieme, intellettuale lucido e senza compromessi. Anche poeta.

Monsignor Mario Qualizza, prete di frontiera da Cravero di San Leonardo, forte scalatore, di De Infanti è stato amico. Non solo: fu uno dei partecipanti alla spedizione nell’Hindu Kush pachistano.

«Facevo il cappellano a San Quirino, sono stati i ragazzi della parrocchia a farmi pubblicità. Noi locali si arrampicava tanto, arrivavamo dappertutto come i gatti, ma una spedizione così era un sogno. Poi Sergio mi chiamò».

Chi era De Infanti?

«Sergio era un uomo forte e concreto. Era più giovane di me, aveva 30 anni quando partimmo, ma era il più esperto di tutti. Viveva la montagna in modo totale, ne conosceva ogni aspetto. In lui c’erano sia il sogno, sia la capacità di vincere le difficoltà. Sergio è stato un grande amico».

Come andò a Cima Friuli?

«Fu una vera avventura: conoscevamo ben poco il territorio, le autorità locali ci avevano perfino dato le mappe sbagliate! Ma le vere spedizioni sono così: prima di tutto, trovare la meta. Ce l’abbiamo fatta. Fu una vittoria di tutti, ma toccò a me, Sergio e Aldo (Scalettaris) arrivare in cima, ricordo che eravamo sfiniti: la prima conquista in certi luoghi è sopravvivere. Mentre salivamo, venne pure uno spaventoso terremoto: attorno al nostro bivacco scesero massi e valanghe. Io gettai la macchina fotografica: tanto, dissi, non serve più, da qui non torneremo».

Invece siete tornati, accolti come eroi.

«All’aeroporto di Ronchi dei Legionari, prima ancora di scendere dall’aereo, ci hanno annunciati con l’altoparlante Poi siamo scesi e fra il pubblico ho visto i ragazzi della mia parrocchia, hanno cominciato a gridare il mio nome. Che confusione hanno fatto!»

Come si conciliano montagna e vita pastorale?

«L’alpinismo è stato una maniera di esprimere la mia fede. Da San Quirino sono stato mandato a Malborghetto, poi a Pontebba, infine a San Pietro. Ai giovani ho insegnato dottrina e arrampicata. La montagna è maestra, rappresenta la misura di noi stessi. Salirci, lottare contro il freddo e la fatica sono l’annuncio, la premessa alla meraviglia. La montagna significa vita. E la vita non è un gioco. Io credo che ai giovani faccia bene provare l’arrampicata, per tirare fuori il coraggio, non la temerarietà. Abituarsi a questa radicalità è molto utile: nelle difficoltà estreme la vita si valorizza».

Sergio De Infanti non era un uomo di fede, però andavate d’accordo.

«Io e lui ci capivamo, al di là delle nostre differenze. Le racconto un aneddoto: quando nelle spedizioni facevo messa, lui restava sempre fuori dalla tenda con il suo toscano. Ma se durante l’omelia qualcuno dei giovani chiacchierava, lo si sentiva gridare: “Tâs, c’al a rason il predi!”: taci, che ha ragione il prete. Sergio era un uomo illuminato». —

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